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Le pagine iniziali dell’ultimo lavoro di Cleto Corposanto, “In viaggio. Una vita da flâneur” (Rubbettino, Soveria Mannelli), iniziano come un accorato ma non enfatico understatement. L’Autore è un sociologo, la scrittura di cui l’accademia fa cifra di vita è complessa, ragionata, meditata, ricercata, vissuta e (auto)criticata. Un volumetto di intrigante titolazione e di cartoline vivacissime e rapide sul filo della memoria è sembrato un modo per fronteggiare la nota esistenziale più dura del primo e del secondo lockdown: la limitazione agli spostamenti per chi, lavorativamente o ludicamente, era abituato a farne.  L’orientamento metodologico non apertamente rivelato nel libro è in fondo una ricostruzione di grandi spostamenti fisici che diventano gli spazi mentali di un percorso di crescita e apprendimento, per chi non si limita a fare il turista, non si limita a viaggiare, piuttosto preferendo praticare la vocazione del viaggio.  Un flâneur, appunto: che non è un bighellone (anche se in viaggio si bighellona e ci si può divertire molto), che non è un moralista (anche se il confronto col radicalmente altro costringe a darsi di quell’incontro una chiave etica, e non solo etnica), che non è un nomade (anche se il movimento svolge nello spazio e nel tempo fino a farne istanza di vita).

I viaggi seguono sostanzialmente tre grandi direttrici, ma considerarle come delle sottotrame sarebbe inutile, oltre che artificioso per i contenuti del volume. Ci sono i viaggi festosi, sgangherati, ilari, vitali, della giovinezza e puntano soprattutto l’Europa delle isole e del Nord, l’Europa che si raggiungeva coi primissimi low-cost o addirittura in macchina o addirittura in tenda e camper e passaggi uno via l’altro. Quell’Europa che sembrava quasi artica per la gioiosa Italia dei Sessanta, Settanta e forse parte degli Ottanta: un’Italia che sapeva sognare, che sapeva crearsi e darsi, creare e dare, opportunità di vita e di studio, un’Italia dove non era avvenuta così lacerante la disgregazione e l’alienazione di comunità umana.
Poi ci sono i viaggi verso l’Estremo Oriente, che l’A. coltiva con particolare trepidazione, anche quando, barometro del tempo mutevole e delle tecniche avanzate, si trova alle prese con situazioni paradossali: la Cina, così grande e inafferrabile che nemmeno la lingua nazionale riesce sempre a funger da collante; la Thailandia dal cuore mistico e dalle sembianze degne di ninfee mitologiche; il Giappone, con quell’autonomo, prospettico, senso di tradizione che tuttavia affronta e affonda il contemporaneo.
E ci sono, ancora, le puntate e gli echi americani: tumultuosi, frizzanti, coi loro paradossi e le loro sperequazioni (una per tutte: il Bronx di un tempo, a New York), quelli verso Nord; a modo loro estatiche le lontane suggestioni latine, giuntura perfetta di paesaggi e storie.
Piace questo libro, considera, confronta, fa socialità selettiva del movimento intenzionale e del dialogo casuale, che sono le maglie incastrate sul ciondolo di ogni viaggio “perfetto”, chioserebbe Saramago. Non c’è, è vero, molto Mediterraneo, ma l’A., italiano, vissuto a lungo tra Calabria e Puglia, forse associa il Mare Nostro alla sua Itaca: quell’approdo cui tornare solo tra una Gibilterra e l’altra. E ancora.

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di Domenico Bilotti

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