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La casa padronale era antica. Mentre percorrevo il corridoio nella luce gialla della penombra, ho visto un tavolo di legno antico. Un tappeto rosso arabescato lo copriva. Il sole sfuggiva al controllo dello scurino e si spalmava sulle mattonelle nere e rosse esagonali. Mi sembrava di essere entrato in un sogno. Soprammobili e suppellettili impolverate moderatamente abbellivano tutto intorno. Una smania di toccare spingeva le mani a presa come a femmine in amore. Un sogno insomma un sogno pieno di ricordi e di fatti che parlavano per bocca di leggendari personaggi. Attraverso quel raggio di sole era possibile scandire la vista della polvere in controluce quasi fosse una galassia. Quella immagine, unica, mi riportava ancora più lontano. Si sentivano riverberi di storie raccontate in quegli ambienti. Storie passate tramandate di amori e tradimenti, di passioni travolgenti. Ero eccitato. Mi batteva il cuore essere stato convocato da questa donna. In paese tutti la temevano. Bella e signorile col gusto retro di una gentildonna ambita. Si diceva che fosse figlia di un mito e che, abbandonata da giovincella, fosse stata rapita da un nobile senza scrupoli ma che poi, morto questo, avesse giurato di vendicarsi degli uomini. Mi aveva chiamato forse per la vendetta? Forse mi avrebbe amato con chi sa quali perizie? E poi perché, chi ero io? Mi aveva mai visto prima? E dove? Non sapevo se inorgoglirmi della mia mascolinità prescelta oppure se impaurirmi dell’arcano che mi sarebbe capitato.   Ad un tratto sentirò dei passi leggerissimi. L’attesa era struggente. Sentivo che sarebbe entrata come sbucata da un guscio. Prima la testa e poi tutto il resto del corpo ornato da un abito bianco di seta trasparente. Mi avrebbe chiuso la bocca  sfiorandomi le labbra con le sue.  Intanto mi si sconquassava la testa annaspando in una disinvoltura ridicola. A quel punto la meta era oltre il piacere. Mi stavo consumando. Desideravo appoggiare la testa sul tappeto rosso arabescato e smetterla di sfinirmi. (s.v.)

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