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di Domenico Bilotti

Uno degli “esperti” più invocati in questi mesi di estenuanti trasmissioni sul coronavirus sosteneva in televisione l’opportunità di un vaccino planetario, utilizzando un argomento di complessa scemenza. In sostanza per il presunto luminare bisognerà curarsi che ci siano molti vaccini nei Paesi più poveri perché in essi le popolazioni tendono a spostarsi verso Occidente, contaminandolo così con varianti più aggressive. Non è poi così difficile vedere l’altra faccia della medaglia in un ragionamento così pedestre: se nei Paesi poveri o nelle zone povere di quelli ricchi malati e contagiati hanno il buon gusto di non spostarsi, possono anche morire senza alcun vaccino; visto che si sposteranno per motivazioni civili e sociali (“migranti economici”) conviene vaccinarli in qualche modo. Persino con vaccini meno sperimentati, ma di composizione sostanzialmente omologa.

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Sandokan e Yanez, gli indimenticati personaggi della saga di Emilio Salgari, ben sapevano che per sfinire un nemico nulla era meglio dei bacilli, della fame, delle operazioni manipolative sui prezzi (se per svalutare o all’opposto apprezzare un bene o una moneta). Ci sono sempre state bombe persino peggiori delle bombe. Siamo ancora nel ciclo dei pirati della Malesia e non ce ne siamo accorti. È chiaro che sui vaccini si sta consumando una guerriglia geopolitica che contrappone fortissimi interessi economici e altrettanto forti modelli giuridici di governo. Il tradizionale asse farmaceutico franco-tedesco ha un vaccino, gli Stati Uniti un altro. Anche la Russia ha un vaccino di propria produzione, con uno score statistico più modesto, ma che sta diffondendo copiosamente negli ex Paesi satellite in debito di dosi. La Cina ha da tempo persino dei protocolli di trattamento, di cui non ha offerto grandissima diffusione, ma che certo possono intestarsi un qualche successo: potranno transitare verso i Paesi arabi, per saldare un’alleanza colossale nel settore delle materie prime, o verso i Paesi “deboli”, fuori dal blocco atlantico, bisognosi di un patronato difensivo.

Il vaccino non è la pozione di Asterix e Obelix. Nessun vaccino ha una copertura integrale, né mai la ha avuta. Approssimarsi a grandi standard riducendo le controindicazioni è la vera missione della scienza: più s’alza l’efficacia e più s’abbassa il rigetto, meglio il vaccino si afferma. È necessario farli per debellare col loro proprio ritmo biofarmacologico i virus che non sono scomparsi “spontaneamente”. Tra i Paesi più colpiti, dietro gli USA che hanno chiuso e chiudono un numero molto limitato di attività, esponendosi a una proliferazione di casi da contatto sociale, figurano l’India e il Brasile, dei Paesi africani e asiatici sappiamo pochissimo: diversi i criteri diagnostici e valutativi, spesso ridotto all’osso il flusso di informazioni. In Brasile il Covid-19 è un killer di favelas e borghi e villaggi: famiglie numerose, condizioni precarie, poca risposta medica, troppe sperequazioni sociali. Una strage pianificata a tavolino da un’urbanistica plutocratica: ogni malattia nelle baraccopoli ha un tasso di letalità più alto che in qualsiasi altro posto. In India lo Stato ha base democratico-federale, ma proprio per questo ci sono troppe differenze (anche giuridiche!) tra “regione” e “regione” e questo non riesce a chiudere i rubinetti della contaminazione.

Altro che vaccini di comodo per puntellare a campione la popolazione migratoria! Serve una risposta planetaria, in sedi internazionali e se del caso con nuovi trattati, per istituire un protocollo di intervento, in caso di scenari epidemici e pandemici, che condivida le informazioni, attivi le cure, impedisca mattanze. Dell’utilità di ciò, sarebbe pericoloso se dubitassero tanto i politici quanto i disfattisti, tanto i negazionisti quanto i cultori dell’onniscienza virologica, tanto i ricchi quanto i poveri. Tutti finiamo in questa urbe globale sotto la ghigliottina del famelico Mastro Titta.

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