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di Enrico Cisnetto
Presi come siamo a discutere di quanto siano assordanti i silenzi e vistosi i comportamenti normali di Draghi – certo entrambi inediti per un inquilino di palazzo Chigi – e viceversa di come non lascino il segno i (disperati) tentativi dei politici di riempire i vuoti apparenti del nuovo dominus della politica italiana, nessuno si è accorto o ha dato peso ad uno studio del Sole 24Ore, secondo cui l’Italia negli ultimi 20 anni ha perso il 18,4% rispetto al pil dell’intera Eurozona. Nel 2001 il nostro “peso economico” in Europa dell’euro era pari al 17,7%, oggi è del 14,5%, mentre il reddito pro-capite italiano è crollato all’82,8% della media Ue e al 67,6% rispetto di quello tedesco. Ora, che fossimo secondi solo alla Grecia nella classifica della peggiore recessione era cosa conosciuta ai più, ma che la nostra regressione economica duri da un quarto di secolo – visto che l’ultima accelerazione l’abbiamo avuta nel lontano 1996 – è questione meno nota, o volutamente dimenticata. Lo dico perché sembra che tutti i nostri guai siano nati con il Covid, e che le responsabilità del ceto politico e delle classi dirigenti del Paese al massimo siano circoscrivibili alla reazione messa in campo per combattere la pandemia. Sembra, cioè, che Draghi sia stato chiamato sulla scena per fronteggiare l’emergenza sanitaria, che in quanto eccezionale ed imprevista ha colto di sorpresa un sistema politico e istituzionale che, altrimenti, in assenza del Covid, avrebbe potuto dare il meglio di sé.

 

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Invece, quei numeri impietosi snocciolati dall’ottimo Giovanni Trovati sul quotidiano diretto da Fabio Tamburini, così come molti altri con cui potremmo misurare il declino italiano iniziato – non a caso – con la fine della Prima Repubblica, ci dicono che le cose stanno assai diversamente. E che credere che Draghi sia e debba essere una parentesi emergenziale, chiusa la quale tutto tornerà felicemente come prima, sia un delitto prima ancora che una corbelleria. Al pari di quelle uscite dalla bocca (e dalla penna) dei Conte boy’s, che a giorni alterni da un lato inveiscono contro il banchiere usurpatore longa manus dei poteri forti europei e planetari, da un altro lo descrivono con in mano il manuale Cencelli (ma a favore di chi, se non prima di tutto dei partiti che sostenevano Conte?) intento ad essere in perfetta continuità con il predecessore (ma allora che senso ha essergli contro?), e da un altro ancora lo vogliono impotente perché sostenuto da un’armata Brancaleone mentre per fare le riforme occorrono maggioranze solide e omogenee come se quelle che si sono avvicendate dal 1994 in poi fossero state tali (ammesso, perché allora non sono state fatte queste benedette riforme?).

La verità, invece, è che Draghi a capo di un governo che al massimo potrà durare due anni, offre ai partiti e al sistema nel suo complesso una (insperata e immeritata) occasione last minute per ripensarsi e ridisegnarsi. Persa eventualmente la quale, una nuova ondata populista e qualunquista, ancor più grande di quella che ha prodotto il declino di questi anni, travolgerà tutto e tutti, lasciando solo macerie.

 

Certo, lo scenario che abbiamo davanti agli occhi non genera troppe speranze. Il partito più strutturato e potenzialmente perno del sistema politico, il Pd, è vittima di una “vocazione minoritaria” (Giorgio Gori dixit) che lo ha reso subordinato ai 5stelle (nonostante la loro disgregazione) e indotto al suicidio al grido di “o Conte o elezioni”. Guidato (si fa per dire) da un segretario che scambia l’avvocato del popolo per De Gasperi e Barbara d’Urso per Walter Cronkite, è totalmente privo di identità politica, che deve necessariamente venir prima delle alleanze, e di conseguenza è dilaniato al suo interno nonostante abbia smesso di discutere di politica e non pratichi più i congressi per selezionare il suo ceto dirigente (ammesso che lo abbia mai fatto). È vero che si assiste al risveglio della componente riformista – interessante il fatto che Enrico Morando abbia costretto il “santone” Goffredo Bettini a contraddirsi negando di aver mai parlato di “alleanza strategica” con i grillini, così come sono da sottolineare le recenti sortite del sindaco di Bari Decaro e del presidente emiliano Bonaccini – ma resta il fatto che l’improvvida decisione di formare un intergruppo parlamentare con 5stelle e Leu è passata senza colpo ferire nonostante quell’alleanza fosse nata per sbarrare le porte al Salvini sovranista che, almeno formalmente, non c’è più. A proposito, si potrà anche provare soddisfazione nel vedere che la Lega, nata secessionista e poi diventata nazionalista, sia stata capace di compiere, nel giro di 48 ore, una svolta europeista. Ma non si può far finta di non vedere come questa straordinaria parabola politica da guinness dei primati sia stata realizzata senza alcuna discussione interna né maturazione culturale, e che quindi con altrettanto rapido trasformismo domani questa linea possa virare verso chissà quale altro approdo. Insomma, se nel Pd e nella Lega ci sono due o più anime, sarebbe indispensabile che venissero allo scoperto, quantomeno creando articolazioni interne codificate dalla distinzione delle idee ma anche fino al punto – sano ai fini di una rigenerazione del sistema politico malato – di una separazione in forze distinte (sovranisti ed europeisti, pur se organizzati in correnti, non possono coesistere in un unico partito).

 

Ancorché scandito dall’odioso sistema delle espulsioni, paradossalmente pare più serio (pardon, meno infruttuoso) il lacerante scontro tra bande rivali in atto nel mondo pentastellato. Non fosse altro perché questa guerra fratricida è assai probabile che alla fine ci consegni il definitivo annientamento del cosiddetto “movimento”, con la più che auspicabile conseguenza che la parte maggiormente qualunquista dell’elettorato italiano torni alla sua storica vocazione dell’astensione dal voto, e che le miserevoli bandiere dell’antipolitica, dell’incompetenza al potere e del giustizialismo – che troppo hanno sventolato in questi anni di declino – lascino il posto a quelle del merito, del dovere e del garantismo. Anche perché se qualcuno crede davvero all’evoluzione moderata, liberale, europeista e atlantista di chi a suo tempo è stato partorito (da un comico fin troppo furbo e da una società di consulenza nata per far business) con il dna peronista, illiberale, no euro, pro decrescita (in)felice, filo Putin-Xi-Maduro – e sono convinto che Di Maio, di animo doroteo, sia uno dei pochissimi a prestarci fede sinceramente – ha il dovere di testimoniarlo uscendo e andando altrove (e magari lasciando allo smanioso Conte l’ingrato compito di rimanere sotto le macerie). Altrimenti la contraddizione, anzi la contrapposizione, tra il punto di partenza e quello di arrivo è troppo stridente per rendere credibile il percorso.

Infine, produce horror vacui osservare gli infiniti tentativi da parte delle moltitudini che sono o credono di essere il “centro politico” di cercare un “centro di gravità permanente”, per dirla alla Battiato, in cui ciascuno possa prendere il sopravvento sugli altri. Fallendo così ogni possibilità di aggregazione: Renzi e (ora) Salvini in competizione nel tentativo di annettersi le spoglie di Forza Italia, le diaspore laiche e cattoliche, radicali e moderate che s’incontrano e si lasciano alla velocità della luce, la società civile che produce sigle promettenti ma che hanno un po’ tutte il difetto (letale) dell’eccesso di personalizzazione a discapito delle matrici culturali e basi programmatiche.

 

Ecco, se questa è la cornice politico-parlamentare entro cui giocoforza agisce Draghi, deve essere chiaro dove iniziano e dove finiscono le sue responsabilità e quelle degli altri. Al presidente del Consiglio spettano essenzialmente due compiti, che corrispondo ad altrettanti “buchi” (voragini, per meglio dire) che il governo precedente gli ha lasciato in eredità: predisporre il piano vaccinale che non c’è, unica possibilità che ci è rimasta per vincere la pandemia dopo il sostanziale fallimento del piano sanitario che ha rincorso il virus senza mai acchiapparlo; riscrivere i contenuti del piano per il Recovery e ridefinire la governance chiamata a gestirlo, impegnando investimenti e imbastendo riforme per i prossimi sei anni in modo tale che qualunque governo successivo non possa mettere in discussione nulla. Non sarà facile, ma la corrispondenza tra la dimensione europea di questi passaggi e la caratura internazionale della sua personale credibilità è un’arma di cui l’Italia non disponeva e che ora è finalmente a nostra disposizione.

A tutti gli altri – personalità e forze politiche esistenti e potenziali – spetta il resto: auto-riformarsi, morire e nascere (politicamente parlando), riscrivere le regole (la legge elettorale, ma non solo) in coerenza con il ridisegno della architettura istituzionale. Ripensare il sistema, insomma. O se si vuole, passare finalmente ad una vera Terza Repubblica (concedendo, magnanimamente, che la Seconda avesse titolo di definirsi tale). Compito non meno difficile di quello di Draghi. Ma se si sciupa l’occasione, ha ragione Enrico Letta a denunciarlo con forza, la conseguenza sarà una nuova, ancor più spaventosa ondata di populismo. E sarà così che ci risveglieremo in Venezuela.
 

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