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Difficilmente i contemporanei colgono degli eventi che stanno vivendo la reale portata, pertanto, nel mentre sono in atto le trasformazioni, non riescono a intravvedere la dirompenza che segnerà il balzo a sistemi di vita del tutto diversi, il cui stacco dai precedenti potrà essere colto solo in futuro, talora a molta distanza da quegli eventi. Pertanto tutte le discussioni su determinati problemi sembreranno poi, al consolidarsi di quel balzo, essere stati perfettamente inutili, frutto quasi di visioni reali su qualcosa che già più non c’era poiché si era andati oltre.                                                                                                Tale considerazione valida per ogni fase storica (ne menzioniamo a esempio una: la scoperta dell’America), lo è ancor di più nel nostro tempo solo apparentemente sui binari dei decenni passati: sistemi di vita, di lavoro e socialità vengono considerati come prosecuzione del passato, mentre del passato non hanno più le forme.                                                                                                                           Ed è il Covid 19 ad essere misura del passaggio. Nonostante i vaccini in atto, il virus con le sue mutazioni tiene ancora il pianeta in sospensione, inoltre la massiccia diffusione di notizie procedenti su opposti fronti contribuisce anche al generale stato di caos, anche emotivo.                                                                                                                         L’umanità ha vissuto altre pandemie, è tornata poi ai suoi soliti stili anche se con avanzamenti, non facendosi, purtroppo, mancare neppure guerre e quel che ne consegue. Cento anni fa ci fu “La spagnola” (1918-1920), detta così perché, non essendoci in Spagna censura come negli altri Stati belligeranti che non divulgavano notizie per non ingenerare spavento, si cominciò proprio lì a parlare della terribile influenza contratta anche dal re Alfonso XIII. “La spagnola” durò con la terza ondata sino alla fine del 1920, quando la società sviluppò alfine l’immunità collettiva pur continuando quell’influenza a essere presente con materiale genetico mutato. Fece oltre 50 milioni di morti su una popolazione mondiale a quel tempo di 1 miliardo e 800 milioni. A parte la diffusione in tarda primavera del virus proveniente forse dal Kansas o dalla Francia oppure dalla Cina (non si è mai saputo con precisione) e della propensione a fare vittime non tra anziani come il Covid ma tra giovani in buona salute, anche allora, nella generale carenza di sistemi sanitari efficienti, ci si volse alla disinfezione di ogni cosa, alla chiusura degli spazi pubblici e al confinamento, alla mascherina con multe ‘salate’ per chi non la indossava (si arrivò negli USA a 100 dollari). Poi, però, scemato il pericolo, la vita proseguì con i soliti rapporti sociali. Possiamo dire che anche per noi sarà così? Il paradigma sociale aveva, già anteriormente al Covid, abbandonato certe forme: riunioni familiari, fra amici, di ragazzi non più volte a colloquiare con lo sguardo al volto dell’altro ma allo smartphone; conversazioni e discussioni sui cosiddetti social, spesso diluvio di offese e improperi. Questa ormai la socialità e chi vorrebbe proporre le antecedenti forme viene ridicolizzato. Come chi affida il proprio sentimento non all’ “emoticon” ma alla pagina vergata con la biro, superata anch’essa, non alla maniera della penna stilografica di cui pur sempre seguiva il procedere, ma in un modo dal vecchio sistema del tutto dissociato. Una svolta che avvia alla nuova epoca, a quella dei servizi digitali considerati come bene necessario al pari di aria, acqua, cibo ed elettricità. A breve si passerà al 5 G e tutto l’ambiente circostante sarà costantemente connesso, pertanto non esisteranno più zone libere da radio frequenze per la moltitudine di campi elettromagnetici sempre attiva. E si andrà sicuramente oltre con modi di vita oggi imprevedibili. Che cosa provocherà nel soggetto umano quel che già abbiamo? Alcuni scienziati prevedono cellule tumorali ancor più in crescita, altri ridimensionano gli effetti nocivi. Intanto chi sa vivere senza lo smartphone?                                               La pandemia di Covid 19 ha spinto ancora più innanzi la digitalizzazione con cui tutto può essere celermente portato avanti in qualsivoglia lavoro, in ogni campo, quindi anche nell’apprendimento, nella istruzione, vale a dire nella Scuola, di cui tanto si discute tra ‘aperturisti’ e ‘chiusuristi’. Possiamo avere nostalgia di aule, di studenti nei banchi, di campanelle e varchi di soglie degli edifici scolastici, ma la tecnologia ha creato altri studenti che solo a quella paiono legati e forse solo attraverso essa possono voler apprendere. Verità difficile da accettare, di cui gli stessi ragazzi non si rendono conto quando scioperano perché vogliono la didattica in presenza, quando ritengono la socialità il bere insieme e lanciare poi bottiglie e lattine mentre fanno, ciascuno per proprio conto, scorrere lo smartphone.                                                                                                                        Bisognerebbe, in base a un principio di democrazia, fare in modo che tutti siano attrezzati perché possano apprendere anche a distanza proprio attraverso la forma che amano. Ciò che sarà –poniamo- del XXII secolo ha inizio oggi e la pandemia ha, tra l’altro, solo imposto la necessità della didattica a distanza (dad) a una società di studenti che già amano più la comunicazione attraverso lo smartphone che il rapporto diretto. Se consideriamo ciò, inutile pare il dilemma “presenza o dad”, pericolosa la scelta della presenza se il virus non è scomparso.                                                         Tesi che non avremmo voluto fare nostra, ma la macchina del tempo è andata avanti abbandonando certe forme di vita del “sapiens” in nome di una tecnologia sempre più “domina”: ci viene incontro ma di noi si impossessa.

Antonietta Benagiano

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