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di Enrico Cisnetto

Sono passati 29 giorni da quando Mario Draghi ha ricevuto l’incarico di formare il governo, 21 da quando ha sciolto la riserva e scelto i ministri, 20 dal giuramento, 16 dalla fiducia ricevuta dal Senato e 15 da quella della Camera. In questo lasso di tempo ha sostituito il commissario all’emergenza pandemica, mettendo in campo Esercito e Protezione Civile, della quale ha nominato il nuovo capo così come quello della Polizia, ha messo al lavoro sotto la guida del Mef la squadra che dovrà riscrivere il piano per il Recovery, ha avviato interlocuzioni con l’Europa mettendo in campo tutta l’autorevolezza e credibilità di cui dispone. Inoltre ha dato continuità alla regolamentazione dei movimenti delle persone, che nella situazione data era per il momento l’unica cosa sensata da fare. Ora, può darsi che per chi in questi giorni ha sollecitato il presidente del Consiglio a sbrigarsi – qualcuno con autentica speranza che faccia il meglio possibile nel minor tempo possibile, altri con l’evidente intenzione di fare il loro mestiere, cioè i provocatori – tutto questo sia poco. D’altra parte, il gioco è facile: basta alzare l’asticella delle aspettative, e anche i miracoli diventano cosa da niente.

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È vero, nell’esecuzione del piano vaccinale siamo maledettamente indietro: il numero dei vaccinati in Italia ha quasi raggiunto quota 3,5 milioni, di cui circa la metà con due dosi. Parliamo del 5,8% della popolazione, e il ritmo non ha mai superato la punta massima di 180 mila iniezioni al giorno. Troppo poco, considerato anche che abbiamo somministrato solo 5 milioni di dosi su oltre 6 milioni e mezzo che ci sono state fin qui consegnate dalle case farmaceutiche. E, dunque, chiunque vorrebbe che Draghi, oltre a voltar pagina nella strategia di aggressione del Covid – cosa che ha già fatto – fosse in grado di superare d’un colpo tutti gli ostacoli che fin qui si sono frapposti a farci ottenere i risultati che hanno ottenuto, chessò, Israele piuttosto che la Gran Bretagna. Ma anche per l’uomo che ha salvato l’euro, i prodigi sono di là da venire.

 

Certo che siamo proprio un paese balordo. Nel pieno di una pandemia che ci ha travolto senza che fossimo capaci di domarla e di una recessione economica senza precedenti, ci capita il colpo di fortuna che a capo del governo un oscuro avvocato politicamente senza passato e senza idee lasci il posto a un “fuoriclasse” di fama mondiale come l’ex presidente della Bce, e già pochi giorni dopo il fausto evento cominciano le distinzioni, per eccesso e per difetto. Per carità, è vero che la composizione del governo Draghi è lontano dallo standing del presidente del Consiglio, ma è sciocco pensare che esso potesse evitare di tener conto dei partiti da cui non solo sono dipesi i voti parlamentari per la sua nascita, ma da cui dipenderanno quelli per la sua continuità e – non meno importanti, anzi – anche quelli che tra meno di un anno serviranno per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Eppure ci siamo già divisi tra chi si affida fideisticamente a Draghi come un onnipotente da cui attendersi veri e propri miracoli e chi ne è già deluso perché i miracoli non sono arrivati nelle sue prime settimane a palazzo Chigi.

 

Se invece ci sforzassimo di restare con i piedi ben piantati per terra, ci accorgeremmo che una vera e propria rivoluzione è già in atto, da ultimo certificata dalle dimissioni di Zingaretti da segretario del Pd. Parlo della fine dell’epoca dell’immobilismo, o se si vuole del governismo senza governabilità, inaugurato con i risultati delle elezioni politiche del 2018, e che ha consentito ad un medesimo presidente del Consiglio di guidare due maggioranze opposte, a favore del ritorno della politica, laddove per essa s’intenda nello stesso tempo l’assunzione di responsabilità in una fase di assoluta emergenza (l’unità, o almeno la convergenza, nazionale) e il riaccendersi di una sana dialettica priva di sponde e di approdi populisti (il riarticolarsi dei partiti e dello stesso sistema politico) che costringa a riscrivere le regole del gioco.

 

Ecco, al di là dei successi che riuscirà a ottenere sul terreno delle “tre emergenze” che ci angustiano (sanitaria, economica e sociale), il doppio metro con cui misurare i risultati del governo Draghi: da un lato la capacità di assicurarsi la tenuta – prima di tutto quella parlamentare, ma anche quella politica – della maggioranza; dall’altro, l’effetto indotto di riuscire a provocare un vero e proprio sconvolgimento della politica, uno choc salutare dopo aver toccato il fondo fino al punto da mettere in pericolo la stessa democrazia. Cose di non poco conto, è bene capirlo anche se possono sembrare astrali rispetto ai vaccini, ai ristori, agli investimenti per lo sviluppo.

 

Perchè Draghi, tra 11 o 24 mesi, passerà – e anche se dovesse andare al Quirinale, ipotesi più che probabile, comunque non sarebbe più la stessa cosa – e noi ci ritroveremo a dover fare i conti con la “normalità”. E fa una differenza enorme se in quel momento avremo nel frattempo posto le basi di un nuovo, più moderno e funzionale sistema politico, o se al contrario ci ritroveremo al punto di partenza, senza più nemmeno avere sottomano un altro Draghi per la bisogna.

 

Attenzione, sia chiaro: non è direttamente il governo, né il presidente del Consiglio, che devono rendersi protagonisti del cambiamento strutturale del sistema politico. Ha ragione Massimo Cacciari nello stigmatizzare l’esercizio della retorica sui rinascimenti attesi, e nel dirsi convinto che Draghi sia perfettamente consapevole dei concretissimi e limitati fini che sono alla portata della sua azione. Ma ha nello stesso tempo hanno anche ragione sia Antonio Polito, quando incita il Parlamento a sfruttare questo raro momento di coesione per fare le riforme istituzionali che servono ad aprire una nuova fase costituente, sia Carlo Galli, quando dice che le circostanze favoriscono il ritorno dello Stato, non nella logica assistenzialista che finora lo ha caratterizzato, minandone la credibilità, ma nella sua originaria funzione primaria di garanzia di difesa dei cittadini, a cominciare dalla tutela della vita minacciata dalla pandemia. Ma Parlamento e Stato camminano sulle gambe dei loro rappresentanti, che in questo caso significa le forze politiche e le istituzioni. Ecco perché va salutato con estremo favore il manifestarsi de “l’effetto Draghi”, cioè quanto sta accadendo dentro i partiti, premessa indispensabile per archiviare la maledetta trimurti del declino italico: il populismo politico, il peronismo economico e il giustizialismo civile (che va oltre il cattivo uso della leva giudiziaria).

 

Prendete le dimissioni di Zingaretti. Al di là della furbizia (da quattro soldi) insita nel gesto studiato dallo “stratega” Bettini – farsele respingere e su quell’onda vincere il confronto interno, possibilmente evitando il congresso – esse sono da un lato l’inequivocabile fallimento dell’attuale linea politica del Pd, che in nome del pericolo (ipotetico) rappresentato dalla Lega ha corso il rischio (certo) di farsi servo sciocco dei 5stelle – che pur in estrema difficoltà sono riusciti a dare loro la direzione di marcia al Conte 2 per la pavidità politica e l’inconsistenza programmatica dei Democratici – fino al punto di invocare con costoro un’alleanza strategica e attestarsi su un assurdo “o Conte o voto” una volta messi in scacco da Renzi. E, dall’altro, la certificazione tombale che la fusione a freddo di oltre 13 anni fa tra gli ex comunisti e gli ex democristiani di sinistra, più una spruzzata di laici, non ha mai generato un soggetto politico dall’identità ben definita, cosa di cui andrebbe preso atto una volta per tutte. D’altra parte, cosa resta di un partito che, come sottolinea Marco Bentivogli, per riavvicinarsi ai ceti popolari – quelli fuori dalle “oasi delle Ztl” – sente il bisogno di usare l’esca dell’anti-politica, nell’illusione di possedere gli anticorpi di una convivenza così velenosa?

 

Ecco perché il polemico “non ci sto più” di Zingaretti, inquadrato nel contesto della crisi dei partiti e del sistema politico che l’avvento di Draghi ha reso palese, è l’occasione, fin qui insperata, che si metta fine all’incestuosa coabitazione di riformisti ed ex massimalisti riconvertiti populisti. Basterà che i primi prendano atto che il disperato votarsi dei pentastellati al demiurgo avvocato Conte – cui Zingaretti, ammaestrato da Bettini, ha persino concesso l’aureola di federatore della sinistra –  rappresenta la goccia che fa traboccare il vaso, e battano la strada di una “costituente riformista”, come sempre Bentivogli suggerisce.

 

Piantino paletti politici, culturali e programmatici che stabiliscano precise linee di confine, denuncino come non più praticabile un (falso) bipolarismo basato su aggregazioni posticce (come appunto Pd-5stelle). Questa assunzione di ruolo e di responsabilità, non potrà che favorire tanto la (salutare) disarticolazione multipla del mondo grillino, quanto la non meno igienica conseguenza di mascherare la mistificazione di un centro-destra che si definisce unito ma che in questa legislatura è riuscito prima ad avere un partito in maggioranza e due fuori e ora due al governo e uno all’opposizione. Dirò di più: se ben gestito, il terremoto nel Pd potrebbe favorire la chiarificazione – cruciale ai fini del riassetto del sistema politico – dentro la Lega, che non potrà accontentarsi della clamorosa conversione a U di Salvini senza uno straccio di pubblico confronto. Ed è bene che in quel partito tanto gli europeisti che prima abbassano gli occhi di fronte alle intemerate sovraniste anti-euro, tanto i fans del Salvini della prima ora e che adesso si mordono la lingua, facciano fino in fondo con le loro contraddizioni.

 

Insomma, è bene che si prenda atto che la nascita del governo Draghi rade al suolo un modo di far politica che ci ha portato nei guai dai quali ora si spera (e per certi versi si pretende) che lo stesso Draghi ci cavi. Chi lo capisce e si mette in condizione di adeguarsi, si salverà e sarà protagonista del dopo Draghi. Gli altri, con buona pace di tutti, finiranno nel dimenticatoio. Se questa “rivoluzione” accadrà nonostante lo scetticismo di Cacciari – per carità, avendo solide argomentazioni a suo sostegno – Draghi, pur essendone solo il detonatore involontario, ne godrà in modo significativo perché potrà fare cose che altrimenti gli sarebbero impedite dal sistema politico arroccato. E di conseguenza ne godrà il Paese. Se invece non si prenderà atto di quanto è successo, se il Pd respingerà vigliaccamente le dimissioni del suo segretario, se il movimento pentastellato finirà per riappattumarsi intorno al demagogo con la laurea, se la Lega continuerà a non discutere e il centro-destra a fingersi uno e trino, allora la prossima legislatura si aprirà con la troika arrivata a commissariarci. E magari con un militare a palazzo Chigi.

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