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Questione decisamente controversa, poco affrontata in pubblico, principalmente per l’imbarazzo che può procurare, la obbligatorietà dei rapporti sessuali all’interno delle relazioni coniugali ha sviluppato al contrario, nelle aule giudiziarie, un ampio e progredito dibattito, pervenuto a per nulla scontate conclusioni.

 

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Seppure nessuna norma, come è ovvio, ha mai direttamente istituito o disciplinato il “diritto al sesso” tra coniugi, la questione aveva trovato una esplicativa ed autorevole direttiva nella norma del Codice di Diritto Canonico del 1917 il quale, sul punto, testualmente disponeva: “Matrimonii finis primarius est procreatio atque educatio prolis; secundarius mutuum adiutorium et remedium concupiscentiae”.

 

Nata sotto l’egida di Santa Romana Chiesa, verosimilmente a tutela di indubitabili e comprensibili principi sociali e morali primari, la norma, e più in particolare la specifica menzione del remedium concupiscentiae (che, va detto, scomparve nella revisione del Codice del 1983), ha molto più prosaicamente funzionato, nella società civile, come ampia e risolutiva liberatoria alla tanto agognata possibilità di congiungersi carnalmente, libertà altrimenti deplorata (sicuramente per il genere femminile) al di fuori del vincolo matrimoniale.

 

Gli universali assiomi, di matrice religiosa, del Diritto Canonico, venivano poi sostanzialmente trasposti, dopo la riforma del diritto di famiglia del 1974, negli artt. 143 e ss. del Codice Civile, ivi riproponendo, in termini profani, i summenzionati principi della (procreatio atque) educatio prolis e del mutuum adiutorium, quest’ultimo particolarmente rinvenibile proprio nell’art. 143 C.C. il quale, ancora a tutt’oggi dispone: “Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione. Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”.

Nessun accenno, evidentemente, al remedium concupiscentiae il quale, inutile nasconderlo, rimane di fatto il sicuramente pregiudiziale “finis matrimonii”, al punto da determinarne la nullità sia e persino nel Diritto Ecclesiastico, allorché dimostrato rato e non consumato, quanto nel Diritto Civile laddove, sempre se accertato tale, il Giudice ne può cancellare ogni effetto senza neanche bisogno di previa separazione (ex multis: Cass. sent. n. 1729/15 del 29/01/2015).

Stanti i qui estremamente sintetizzati presupposti legislativi, qual è dunque l’attuale orientamento giurisprudenziale in merito ai rapporti “amorosi” tra coniugi?

Il dibattito ha fatto da tempo ingresso nei Tribunali ed i giudici, scandagliando senza riserve gli aspetti più intimi della vita di coppia, hanno alfine affermato che, se la “sedatio concupiscentiae” non è l’unico scopo del matrimonio, in capo ai coniugi sussiste, tuttavia, un vero e proprio diritto-dovere ai frequenti rapporti sessuali, equiparabile agli altri diritti e doveri discendenti dal vincolo matrimoniale e che la mancanza di un’intesa sessuale serena ed appagante (con tutte le implicazioni che il termine “intesa sessuale” può significare in termini di frequenza, tipologia di rapporti, aspettative etc..), inficiando la comunione materiale e spirituale tra gli interessati, legittima la domanda di separazione in quanto, ove debitamente comprovata, costituisce elemento che prova la carenza di legami tra i coniugi e l’intollerabilità della convivenza (Cass. n. 8773/2012; Cass. n. 17056/2007).

 

Il rifiuto di condurre una normale e sana vita sessuale, per non dire l’astensione completa, se protratti nel tempo ed ingiustificati, diventano dunque -hanno chiarito gli Ermellini- legalmente rilevanti allorché integrino gli estremi di un sostanziale disinteresse di un partner nei confronti dell’altro, tale da sfociare nella mancanza di comunione di affetti e dare luogo ad una offesa alla dignità della persona, comportando perniciosi pregiudizi sul piano personale e psicologico.

 

Secondo l’orientamento maggioritario, allo stato consolidato della giurisprudenza, pertanto, “il persistente rifiuto di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge -poiché, provocando oggettivamente frustrazione e disagio e, non di rado, irreversibili danni sul piano dell’equilibrio psicofisico, costituisce gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner- configura e integra violazione dell’inderogabile dovere di assistenza morale sancito dall’articolo 143 cod. civ., che ricomprende tutti gli aspetti di sostegno nei quali si estrinseca il concetto di comunione coniugale” (Cass. n. 19112/2012).

 

E’ appena il caso di precisare -e tralasciamo qui l’approfondimento- che il rifiuto dei rapporti sessuali deve essere esso stesso il motivo del fallimento della vita coniugale, e non viceversa, come quando, molto più frequentemente, la negazione dei rapporti sessuali è piuttosto conseguenza di altri, svariati e giustificabili motivi.

 

Non essendo nella legislazione civile esplicitamente tutelata, come detto, la menzionata aspettativa ad una normale e sana vita sessuale, per rispondere alle frequenti sollecitazioni propostele, la giurisprudenza ha pertanto efficacemente fatto ricorso, interpretandolo ed adeguandolo alle esigenze del tempo, al secondo comma dell’art. 151 c.c.,  il quale statuisce che il giudice, pronunziando la separazione, ove ne ricorrano le circostanze e venga richiesto, dichiara “a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”.

 

Presupposto dell’addebito, la cui valutazione va effettuata sulla base del complessivo comportamento dei coniugi nello svolgimento del rapporto coniugale e i cui effetti rilevano in sede di diritto al mantenimento e successorio è, dunque, l’intollerabilità della convivenza causata dalla violazione, da parte di uno dei due coniugi, degli obblighi e dei doveri nascenti dal matrimonio (Cass. n. 6621/1994).

 

Insomma, il suggestivo e metaforico  remedium concupiscentiae sembra essere sparito dal dibattito legislativo-giurisprudenziale ufficiale, quanto meno nella sua accezione più negativamente interpretabile e, cioè, quella che possa anche lontanamente avallare i comportamenti maschilisti, misogini, brutali e violenti ancora oggi purtroppo tristemente all’ordine del giorno nelle cronache giornalistiche e giudiziarie.

 

Su detta falsariga, la Cassazione ha dunque determinato un notevole doppio cambio di passo rispetto al passato, ammonendo, da una parte, che non esiste né un diritto all’amplesso, solo perché tra due persone sussiste un rapporto coniugale o paraconiugale, né il potere di imporre o esigere una prestazione senza il consenso del partner e stabilendo, di contro, che la intimità di coppia costituisce rilevante ed imprescindibile requisito di ogni relazione amorosa, a maggior ragione quando rientrante nell’ambito di un rapporto matrimoniale.

 

Può in conclusione affermarsi il principio, enunciato dalla Suprema Corte di Cassazione, che il diritto/dovere alla relazione sessuale tra i coniugi è da intendersi come una delle espressioni del dovere di assistenza morale previsto dall’art 143 del codice civile e che il dovere morale di soddisfare le reciproche necessità non riguarda solo quelle esclusivamente emotive e assistenziali, ma anche quelle di natura prettamente “fisiche”, di talché il rifiuto di avere rapporti sessuali rappresenta la manifestazione di una volontà che, celando in sé l’intenzione di non adempiere un dovere coniugale, può comportare, se richiesta, la sanzione dell’addebito nell’ambito della separazione giudiziale.

 

Avv. Carlo Totino

Patrocinante in Cassazione

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