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di Domenico Bilotti

La collana Tracce Giuridiche della pregiata Editoriale Scientifica offre in queste settimane al lettore la riflessione di Vincenzo Maiello, “La legalità della legge nel tempo del diritto dei giudici”, avvalendosi inoltre di un arguto scritto introduttivo di Fausto Giunta. Nota la caratura dei Due, non si creda tuttavia che il libro sia solo una pubblicazione specialistica, di quelle che sezionano interi rami del diritto, ma che poi poco trasmettono ai non addetti – sia chiaro: talvolta per colpe reciproche di dottrina e platea; l’una arroccata in tempi che ne rifiutano aprioristicamente le proposte, l’altra seduta in un vuoto di cultura giuridica generale che non giova proprio a nessuno.

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Il penalista Maiello incarna invece in questo testo uno dei pregi della letteratura pamphlettistica scritta dagli studiosi veri: una testimonianza contemporaneamente più intima e raffinata, perché fa schiettamente il punto di una situazione di fatto e perché conclude, in ben costruiti segmenti di logica giuridica, con serissime iniziative de iure condendo. Nel testo in commento, questo ruolo é precipuamente svolto dal paragrafo finale in cui si configurano le potenzialità di un ricorso di ultima istanza avverso i poteri dello Stato in caso di violazioni gravi dei principi fondamentali. Con ben minore sottigliezza ermeneutica, ho sostenuto in chiusura di una recente pubblicazione per i tipi di Castelvecchi, “Disobbedire alla pena”, un meccanismo fondamentalmente simile.

Persino chi covasse pregiudizi ideologici contro la natura di un istituto del genere, attribuendogli fantasiose distorsioni dilatorie ed elusive, non potrebbe non concordare col tracciato di storia giudiziaria, negli ultimi trent’anni di vita di questo Paese, che Maiello percorre nelle prime sezioni del libro.

In particolare, si notano e verbalizzano con scienza e coscienza due curiose contraddizioni che hanno avvelenato la discussione pubblica intorno alla questione giustizia.

Squalificatosi per condotte decisamente reprensibili il potere legislativo e ormai accresciuta la distanza tra amministrazione e cittadino, nonostante le illusorie riforme degli anni Novanta e Duemila che urgevano alla partecipazione e alla procedimentalità contro la stretta provvedimentalità, la giurisdizione ha prima assunto e poi s’è con più forza presa una missio di supplenza nei confronti degli altri poteri dello Stato. Se prima anzi d’azione suppletoria poteva dirsi, mano a mano ciò è sembrato divenire un’avocazione coattiva in sede inquirente. E da qui l’ulteriore paradosso esplicitato da Maiello con autorevolezza e sintesi: questa vitalità dell’elaborazione giurisprudenziale (spalmata, ben oltre la sentenza, anche sull’indagine e forse persino negli atteggiamenti) ha coinciso pienamente con una formazione prettamente giuspositivistica del giudicante, d’un giuspositivismo meccanicista, però, quello che sotto il cappello della legge produce finanche suo malgrado risultati contra legem e contra jus.

Viepiù, ed è il terzo livello d’analisi sollevato da Maiello, l’affidamento incondizionato non già a una legislazione o a una legislatura (ricordiamo la lezione di Hayek) bensì all’ossificazione di una politica legislativa ha stravolto la politica del diritto penale, scaricando su di essa senza alcun filtro ogni richiesta di sicurezza sociale. Il danno è quello di una brutta equazione algebrica: più la extrema ratio della norma penale diventa schema generale dell’azione pubblica e più la nozione penalistica di legalità va a farsi benedire, divenendo il minestrone di ogni affrettata novella-manutenzione legislativa. La risposta di Maiello è quella cristallina di un ritorno netto all’esegesi critica e costituzionalmente orientata della norma penale. Per anni ci siamo illusi dell’esistenza di un giudice dworkiniano, nato e cresciuto nell’ossimoro di una sobria onniscienza, che lo ha soffocato, mentre la stratificazione del materiale normativo risprofondava alle gride manzoniane.

Pessima è quella societas iuris, quella (in)civiltà del diritto, in cui individuazione ed emenda del reo, protezione degli offesi e uso linguistico della norma fanno a pugni. La rissa, si sa, è un reato necessariamente plurisoggettivo.

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