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di Micaela Filice

Nella storia del diritto e della teologia politica, il tema della disobbedienza e quello del potere sono inscindibilmente legati: quando si giustifica la sovranità o un’organizzazione della comunità, inevitabilmente si deve tener conto del momento in cui è giusto opporre resistenza al comando ingiusto. Il nuovo libro di Domenico Bilotti (“Disobbedire alla pena. Studio su resistenza e ingiustizia in riferimento a Francisco Suàrez 1548-1617”, Castelvecchi, Roma, 2021) entra in medias res e si propone di ricostruire la storia dei rapporti giurisdizionali a partire dalla riflessione degli Autori italiani dalla prima metà del XIII secolo sino al contemporaneo. Le fonti dottrinali dell’oggi partono dai lavori della Costituente italiana e le proiezioni dell’attualità arrivano ai movimenti delle primavere arabe e alle rivolte razziali statunitensi dell’ultimo anno.

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Bilotti si chiede in sostanza a quali condizioni ci si possa sottrarre a un comando ingiusto, anche quando questo abbia carattere sanzionatorio, e per realizzare tale obiettivo si rivolge in primo luogo al magistero della Scolastica spagnola del XVI secolo. Un singolare recepimento contraddistingue i giuristi di quella fase. Per i contemporanei, sono in larga misura i teologi ufficiali della controriforma, il riassetto ecclesiastico che vuole tamponare lo scisma luterano e la crisi di legittimazione dell’autorità religiosa in un sistema che inizia a praticare (se mai aveva smesso) il pluralismo dei fori e i primi fenomeni di secolarizzazione del dibattito politico. Riguardati a cinque secoli di distanza, invece, gli scolastici gesuiti sembrano il ponte necessario tra il diritto e la teologia medievale e le istanze di giustizia sociale introiettate nella modernità dalle Rivoluzioni settecentesche ad oggi. Non c’è dubbio che su una serie di questioni – il diritto di guerra, il rifiuto della schiavitù, la critica alle conquiste coloniali, il rapporto tra potere civile e precetto religioso – gli Autori spagnoli del Cinque e del Seicento vadano molto più avanti delle posizioni pontificie del loro tempo e plasmino l’evoluzione del giusnaturalismo e del contrattualismo poi accolta nel costituzionalismo novecentesco. Eruditi sapienti, che conoscono in modo esaustivo fonti cristiane orientali e giuristi “laici” del Medioevo, teorizzano una resistenza intesa in primo luogo come forma di coesione sociale e non di sovversione: la disobbedienza politicamente orientata deve salvaguardare i principi fondamentali (per Suárez, il bene comune) e mettersi al servizio di scopi collettivi nient’affatto meramente egoistici e individualistici. L’azione politica che produce effetti giuridici diviene così uno strumento di difesa della persona e della dignità umana, contro ogni pretesa dispotica, usurpativa e autoritaristica.

Facile vedere in filigrana gli sviluppi attuali che Bilotti squaderna negli ultimi due capitoli del volume: il tema della pena, quale sanzione retributiva commisurata alla gravità del crimine, e le condizioni di giustizia della sua esecuzione (spogliate di ogni legalità costituzionale quando si assiste a trattamenti inumani e degradanti), le manifestazioni nuove dell’abuso di potere, la difesa del paradigma repubblicano contro le tentazioni di confessionismo, nazionalismo e populismo. Un’indagine completa, che, se parte dalla teoria del diritto di derivazione tomistica, facilmente giunge a toccare la carne dei problemi odierni.

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