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di Domenico Bilotti

Queste riflessioni non vogliono esprimere un posizionamento politico o enunciare un dato tecnico (normativo o scientifico). Nascono da osservazioni di “cittadinanza”, nel contesto in cui siamo, in quello in cui siamo stati e in quello in cui dovremo essere. L’estate scorsa i Paesi europei sprecarono un evidente match-ball: come bisognava aspettarsi, la partita non era finita. Né sul fronte del Covid-19, né su quello delle conseguenze patite. Procedere con una politica di riapertura integrale senza disseminare il percorso di contrappesi razionali a metà autunno ci ha riportato un po’ più in basso del punto di partenza: con più contagi, più morti, più chiusure (applicate tuttavia in modo sovente surrettizio).

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La discussione politica – e stavolta parlo anche della politica in quanto sistema di amministrazione, governo, servizio – sembra in glaciazione. Maggioranze e opposizioni navigano in questo gigantesco limbo dell’emergenza ed è troppo facile assegnare le pettorine: chi si oppone vuole tutto aperto e tutti sani (e come arrivarci non ci dice); chi sta nelle composite maggioranze parlamentari, mai fluttuanti come in questa legislatura, inventa mille quadrature che non spostano il discorso di un millimetro.

Oggi ho sentito uno stucchevole dibattito televisivo sul coprifuoco. Stucchevole non perché il coprifuoco non sia un tema nel tema, una scelta strategica per capire se e come serve, se e come sia servito o meno. Nossignori, mi è parsa discussione stucchevole perché veicolata, davanti a milioni di spettatori, da opinionisti che non hanno affatto le esigenze concrete, immediate, della maggior parte delle persone: non c’erano rappresentati i malati di altre patologie, i giovanissimi, gli esercenti, i pendolari, i fuorisede. Non c’erano le persone comuni, con quelle comunissime istanze che per noi sono però di capitale importanza: cosa si può fare, a che ora si può cenare, cosa è più conveniente fare, cosa abbiamo giustificabilissima paura a fare o ad aspettare ancora di fare.

In questa fase in cui le norme vecchie e nuove contano poco, e tutti aspettano perlopiù via libera su vaccinazioni, allentamenti e nuove possibilità di guadagno da troppo tempo accantonato, la politica avrebbe dovuto fare uno scatto in avanti. Quanta ricerca serve, quanto know how ci occorre, per provare ad attutire i danni di episodi così imprevisti, come una pandemia prima di ieri ignota? Che conseguenze porta sulla popolazione, anche sui guariti, l’aver contratto il Covid? Abbiamo davvero scritto l’ultima parola sui veri fattori di rischio sociale e sanitario? Quali sono, in sostanza, i segmenti del comparto salute che serviranno per riassorbire la transizione e l’impatto di tutto quello che è successo?

Gli specialisti stanno provando a fare il loro, in una governance che ancora non sa prendere appunti: Covid e alimentazione, Covid e dipendenze, Covid e trattamento degli altri disturbi fisici, Covid ed esercizio delle libertà civili. Se ci fosse la pazienza anche solo di ascoltare si capirebbe molto di quello che non ha funzionato: la tardività di alcuni ricoveri e di alcune diagnosi, l’inaccettabile dilazione sulle diagnostiche apparentemente meno gravi, i limiti introiettati e ingoiati nel lavoro, nello stile di vita, nel reddito. Speriamo che l’estate del 2021 abbia i pochi contagi di quella del 2020. Speriamo che, anziché alle foto col mojito o ai webinar per pochi intimi – chiamati pomposamente “assemblee” e “consultazioni”, la politica stavolta guardi dalla parte giusta.

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