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Se riflettiamo su quanto è, nel corso dei millenni, accaduto e continua anche nel tempo presente ad accadere in tantissime parti del nostro pianeta a causa di quelle passioni umane che generano violenza, non possiamo non essere d’accordo con Friedrich Hegel. Il filosofo di Stoccarda riteneva essere la storia “un mattatoio dove vengono condotti al sacrificio popoli, sapienza degli Stati e virtù degli individui”, praticamente tutto ciò che dovrebbe essere, invece, mantenuto in vita e di cui si dovrebbe avere riguardo. E, con le armi belliche tecnologicamente avanzate, un mattatoio di innocenti. Come Hegel, pure noi non riusciamo a capire a vantaggio di quale finalità ultima, non di quella a breve scadenza, debbano essere compiuti i sacrifici.                                                                                                                                Eppure il “mattatoio” continua, quasi che senza di esso non potremmo esistere, non potremmo essere storia, la quale poi, a considerare, non è per niente “lux veritatis” e “magistra vitae”, secondo la definizione di Marco Tullio Cicerone: sugli eventi non si fa luce di verità, tuttalpiù si perviene a qualche barlume, e inoltre gli stessi nulla insegnano, dato che il “mattatoio” continua ad andare avanti.                                                                             Dunque è il Male, la sua realtà che si dispiega in infinite forme, sia in un qualsivoglia soggetto, sia nella collettività e nei popoli tutti, a farci essere esistenti. Esistenze senza alcun dubbio infelici: i popoli felici, come rifletteva Raymond Queneau in “Una storia modello”, sono quelli che non hanno storia, pertanto concludeva che “la storia è la scienza della infelicità degli uomini”.                                                                                                                                           Al di là dei drammatici fatti di singoli soggetti, purtroppo quotidianamente presenti sulla stampa e nelle televisioni di ogni parte del globo, sono ancora tanti i focolai di guerra, sempre per quelle passioni generatrici di distruzione e morte.                                          E ci soffermiamo sulla terra dove sono costretti a convivere, ormai da lungo tempo, palestinesi e israeliani. Lì è ripresa la guerra che non ha mai avuto veramente fine. Possiamo dire che ebbe inizio da quando il 29 novembre del 1947 venne approvata nella sede dell’ONU la partizione della Palestina in due Stati, uno arabo e l’altro ebraico (25 voti a favore, 13 contro, 17 astensioni). Esclusa dalla partizione Gerusalemme, città simbolica per le tre religioni monoteiste, e fu subito un contenzioso per la richiesta da parte di Israele di volerla come capitale. Portata questa richiesta avanti per lungo tempo, ha avuto nel 2017 (6 dicembre) il riconoscimento da parte del Presidente degli USA Donald Trump.                                                                                               La guerra infinita fra palestinesi e israeliani è andata avanti con fasi alterne senza approdare ad una volontà di convivenza pacifica, anche per la intromissione di Stati parteggianti per Israele o per il mondo palestinese, a seconda degli interessi in campo.                                                                                        Una partizione mai accettata dai palestinesi (per essi è stata ”nabka”, che vuol dire disastro), quindi sin dall’avvio ha provocato e continua a provocare guerre a ripetizione. La prima guerra del 1948 ebbe implicazioni di vari Stati dell’area araba, ad essa seguì nel 1956 quella per il canale di Suez, poi l’altra del 1967 con intervento dell’Egitto di Nasser e attacchi aerei israeliani che come esito ebbero la occupazione di territori. Nel corso della guerra degli anni 1973 – ‘85 si registrarono, nelle alternanze di tregua, la riapertura del Canale di Suez, paci separate, ma anche l’invasione del Libano e di altri territori da parte israeliana.                                         Ostilità, attacchi e distruzioni, mai cessati del tutto, giungono ora agli ultimi drammatici fatti, che stanno andando avanti al di là dei ripetuti appelli internazionali ad Israele perché cessi dal bombardare.                                                                          Anche Papa Francesco ha rivolto un accorato appello. Ma quale peso può avere il Papa se lo stesso mondo occidentale non riconosce la propria identità nella civiltà cristiana?                                                                                                                         E’ la Striscia di Gaza ad essere presa di mira da oltre una settimana dai bombardamenti israeliani: più di 200 morti, tanti feriti, distrutti anche l’edificio di Al-Jalaa, sede di Associated Press e Al Jazeera, e inoltre 15 chilometri di tunnel che venivano usati dai miliziani di Hamas, il Movimento Islamico di Resistenza, cui si contrappongono i miliziani sionisti, da lontano tempo noti per le pulizie etniche.            Ai bombardamenti si sono aggiunti azioni dell’artiglieria terrestre; di contro, da parte di Hamas, lancio di razzi con una diecina di morti e con feriti.                                                      Da sempre tanti i discorsi sulla bellezza della pace, ma questa per farsi realtà richiede giustizia, non brama di dominio, richiede di non preoccuparsi dei confini, di annullare le divisioni. Bisognerebbe –diceva Khalil Gibran – stare come su una nuvola, di lì è impossibile vedere linee di confine e divisioni di proprietà. Ma nessuno può sedere su una nuvola, perciò la storia continua a procedere al modo consueto, vale a dire con la infelicità, frutto della guerra che Voltaire considerava la più stupida delle arti.

Antonietta Benagiano

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