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LA REVISIONE DEL PROCESSO A DANTE ALIGHIERI

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“Dov’è un tribunale è iniquità”, affermava Lev Tolstoj, e aggiungiamo che l’iniquità cresce se lievita la collusione con i poteri politici. Problema antico, sempre più presente, su cui si continua a scrivere tanto. Ma scrivere non è risolvere: i colpevoli continuano a cavarsela, la giustizia resta parola vuota.                                                                                                                                        Nella nostra attualità poi, con la riforma della prescrizione, il processo sembra non avere termine, viene ad intermittenza riaperto, portato avanti.                                                                                        Quest’anno, però, si è riaperto, a sette secoli di distanza, il processo del 1302 (ebbe successive riprese) a Dante Alighieri, Poeta ovunque celebrato come Sommo. Alessandro Traversi, avvocato penalista del Foro di Firenze, ha lo scorso 21 maggio avviato presso l’Educandato della Santissima Annunziata a Poggio Imperiale di Firenze la revisione del processo a Dante Alighieri, cittadino fiorentino accusato di baratteria e altro nel corso della sua carica di Priore.                                                                                                                                Il Poeta, mentre era in viaggio di ritorno dall’ambasceria a Papa Bonifacio VIII, presso cui si era recato per convincerlo ad abbandonare le mire su Firenze (ma in sua assenza la fazione dei Guelfi Neri, opposta a quella dei Bianchi, cui apparteneva Dante, aveva già aperto le porte di Firenze al finto paciere Carlo di Valois, inviato papale), venne informato dell’accusa, dell’ingiunzione a presentarsi e del pagamento, entro tre giorni, di 5000 fiorini che, secondo calcoli effettuati, corrisponderebbero a 50 mila euro. Il Poeta, subodorando l’inganno, non si presentò, venne pertanto condannato all’esilio e, in terza sentenza, a morte: “…igne comburatur sic quod moriatur”. Al rogo perché muoia!                                                                                                                                 Il processo dello scorso 21 maggio è stato un convegno di avvocati, giuristi, storici e studiosi al fine di verificare responsabilità delle accuse rivolte (baratteria e di avere inoltre Dante, nel corso della sua carica di Priore, favorito i Bianchi) o per riconfermare la strumentalizzazione della giustizia al fine di eliminare un avversario polittico, cosa anche allora frequente.                                                                                                                    Presenti alla revisione del processo Antoine de Gabrielli, discendente del Podestà/Giudice (i poteri a quel tempo non erano separati) Cante de’ Gabrielli, e il discendente di Dante, dott. Sperello di Serego Alighieri.                                                                                       Sono stati ripresi tutti gli Atti di quegli anni e, dopo attento esame di quanto relativo alla condanna del Poeta, il processo si è chiuso con l’affermazione della innocenza di Dante Alighieri cittadino di Firenze: nei suoi riguardi ci fu un uso strumentale della giustizia per fini politici. Si è quindi riaffermato, sulla scorta dell’esame dei documenti, che la condanna inferta a Dante dal Governo dei Neri di Firenze fu una ingiustizia.                                                                                                                     Grandissimo dolore ne ebbe il Poeta, lontanissimo dalla baratteria, come da qualsiasi altro capo d’accusa. Ricordiamo che nell’Inferno, nella V bolgia dell’VIII cerchio, condanna i barattieri a stare immersi nella pece bollente, che inoltre da tutte le situazioni presenti nei relativi canti XXI e XXII, dove la sceneggiatura è davvero impressionante, si deduce che sono considerati di una capacità d’inganno superiore a quella degli stessi diavoli messi di sorveglianza, i quali vengono gabbati.                                                                                                                                   “…l’essilio che m’è dato, onor mi tegno” vergò il Poeta in una Canzone delle “Rime”. Onore/dolore per essere stato ingiustamente cacciato dal suo “dolce nido”, così definisce Firenze nel “Convivio”; per dover provare “…come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”, questo, insieme a tanto altro, fa dire all’avo Cacciaguida nel canto XVII del Paradiso.                                                                                                       L’esilio produsse la “Divina Commedia”, universale opera immortale.                                        Ma stiamo parlando di Dante Alighieri.

Antonietta Benagiano

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