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di Domenico Bilotti

In teologia politica e in diritto pubblico ecclesiastico, chiamiamo con qualche approssimazione “catechon” quel potere che frena l’arrivo (o il ritorno) del Messia e la venuta del Regno. Quello sforzo frenante non si costituisce come ostruzione definitiva, ma come ineliminabile diaframma propedeutico. Se si volesse utilizzare questa nozione nella politica italiana dell’ultimo cinquantennio, bisognerebbe chiedersi cosa abbia impedito (come è sotto gli occhi di tutti) la piena attuazione della Costituzione, nella sua duplice declinazione personalista e sociale. Quali forze – non solo quelle formali: partiti e gruppi parlamentari, ma anche sostanziali: classi, reti, movimenti – avrebbero dovuto realizzare questo “evento-avvento” e come e perché non lo hanno realizzato? Guardando ai lavori preparatori della Carta costituzionale e all’assetto dei pubblici poteri almeno tra il 1948 e il 1968, questo ruolo sarebbe spettato alla sinistra, in particolar modo alla sua declinazione social-comunista, che, col contributo del cristianesimo sociale e di una parte incisiva ma ridotta del mondo repubblicano, laico, libertario, aveva effettivamente dato alla repubblica una fisionomia ben precisa. Il Sessantotto dismette rumorosamente i santoni della trasformazione – il ceto politico dello Stato sociale – e libera spazi a soggetti nuovi che a vent’anni di distanza rendono il quadro rappresentativo della Costituente non più riproducibile all’infinito. Il conflitto sociale che si consuma spontaneamente tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta non lascia indifferenti gli attori politici che pure non lo a(ni)mano. Il più grande partito comunista occidentale, quello italiano, valuta che i tempi non siano propensi a una nuova, grande, trasformazione costituente, bensì pericolosamente minacciati da poteri oscuri e collaterali che non escludono il colpo di Stato. Se consideriamo la storia italiana tra il 1969 e il 1980, almeno tra Piazza Fontana e la strage di Bologna, Berlinguer ha effettivamente ragione: sembrano introdursi una partecipazione democratica e una sovranità popolare svuotate in partenza. Potenze estere, corpi dello Stato apparato, grande impresa statale e non statale, criminalità organizzata, riescono a determinare segmenti di vita nella giovane Repubblica dove la giurisdizione pubblica è aggredita e sospesa da feroci prassi abusive. Berlinguer decide, ormai quasi un cinquantennio addietro, l’opposta strategia dell’alleanza (più che del compromesso) con la buonafede del sistema e non con l’istanza disorganizzata che viene dalle lotte antisistema. Non è questa la sede per dire se avesse o meno fatto bene; piuttosto, mette conto rimarcare quanto quella scelta si proietti sino a tutt’oggi su quella stessa storia politica.

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Già a metà degli anni Ottanta il “vento dell’Ottobre” sembra finito: è finito nel diritto e nel dibattito interno. Sconfitte le istanze sovversive certamente sul piano repressivo, anche all’esterno si vede ormai a occhio nudo il rinculo dell’internazionalismo socialista a Est, che ha originato tanti sub-sistemi nazionali che praticano esclusivamente un capitalismo di Stato. Ecco perché la sinistra, apparentemente stanca e invece in ebollizione, cerca nuove immagini e nuove parole chiave: la questione morale contro le esibite pubbliche corruttele (una specie di Trimalcione fattosi Cesare), la cooperazione internazionale verso il Terzo Mondo, l’antinuclearismo, l’aperture delle liste elettorali ai non iscritti, ai non “organici”. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, il “messianismo” è recitato su due spartiti nocivi: nel 1989 il certificato di morte del sovietismo realizzato suona persino ai più intransigenti sostenitori dell’ortodossia leninista una scoperta postuma e tardiva. Qualcosa davvero non aveva funzionato. Purtroppo, nel 1992 questa ricerca si incrocia con le inchieste giudiziarie: il campo della politica cede a quello della giustizia il repulisti che un’idea nuova di società non era riuscita a portare a termine – e nemmeno lontanamente a cantierizzare. La convinzione che un nemico vi sia e che quel nemico si batta con una condanna e non nel conflitto (che sia impegno sociale o “competizione” delle idee) è una deviazione deleteria alla quale, pure stavolta a ragione e pure stavolta con ritardo, tenta di ovviare Massimo d’Alema intestandosi la riforma della giustizia, il giusto processo e più concretamente il “nuovo” articolo 111 della Costituzione. Quell’iniezione di nuova cultura politica – dal giustizialismo al garantismo – esce molte volte sconfitta: quando i partiti personalistici, privi di dirigenti e invece colmi di seguaci, sono fatti certo dagli ex imprenditori e non meno che dagli ex giudici; quando la sinistra a sinistra dei suoi riferimenti istituzionali sceglie in meno di un decennio a rappresentarla Di Pietro prima e Ingroia poi. Quando, nel mezzo, il Partito Democratico progettato da Veltroni e Bettini, con la sua vocazione maggioritaria, fa coalizione con “Italia dei Valori”, per catturare gli ultimi ma copiosi scampoli dell’antiberlusconismo: agli antipodi dell’entusiasmo del discorso al Lingotto di Torino. E in parte Bersani nel 2013 e Renzi nel 2018 (si) tengono a freno nello stesso modo pur partendo da strade diverse. Il primo, in coalizione con piccolissimi spezzoni del centro democristiano e appena più ampi spalti della sinistra che ha liquidato Rifondazione Comunista, va in campagna elettorale con Keynes… ma quel generico appello al solidarismo senza il martello dell’eguaglianza sostanziale non convince in teoria e non sfonda nell’urna. Il secondo sogna un “nation party” (ultima incarnazione del partito-stato di Togliatti?) nel radicato vuoto totale della proposta politica altrui: ne avrebbe per anni, forse decenni. Inciampa in una riforma costituzionale larghissima e battuta al referendum: la sinistra interna sa che la revisione costituzionale è il ponte levatoio dal quale accappottare ogni figliol prodigo e finisce inconsapevolmente per desertificare ogni alternativa alla “maggioranza Putin” (quel 60% di elettorato che, in parallelo ai sostenitori del presidente russo, è il 20% del disfattismo degli originari 5Stelle, l’arrocco securitario di una ormai sdoganata Destra sociale, e il restante 20% di una Lega passata dal secessionismo all’egoismo plebiscitario). Ribaltare il presente è sempre rimozione di catene mentali, a volte necessità del dire l’indicibile: Europa politica, libertà individuali pensate solo nel prisma della coesione sociale e coesione sociale pensata solo nel prisma delle libertà individuali. Riusciranno i “Nostri” (?) a sollevare finalmente il “corpo che frena”?

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