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DI RENZO (IDO): VICINANZA MEDICO FONDAMENTALE PER TRACCIARE FUTURO FAMIGLIA

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L’approccio che il neonatologo ha davanti a una nascita estremamente pretermine può essere immaginato come una piramide: “Una base molto solida di tipo epidemiologico, clinico e analitico, che deriva dalla nostra formazione. Al centro c’è l’attenzione a eventuali contenziosi medico-legali. Solo in cima, un piccolo spazio è dedicato all’approccio di tipo psico-relazionale, introspettivo e bioetico. Nel guidare il nostro operato, però, dovremmo avere la capacità di rovesciare questa piramide per dare un grosso spazio all’approccio psico-relazionale, un occhio meno forte agli aspetti medico-legali e mettere in cima l’aspetto clinico. Solo allora potremmo essere dei bravi medici”. A dirlo è Andrea Dotta, medico, neonatologo, responsabile della struttura complessa di Terapia intensiva neonatale presso l’ospedale pediatrico Bambino Gesù, nel corso dell’ultimo Venerdì culturale promosso dalla Fondazione MITE, in collaborazione con l’Istituto di Ortofonologia (IdO), e dedicato ad aprire una riflessione sulle traiettorie di vita e le scelte complesse che gli operatori devono compiere nel periodo neonatale. “La vita di ognuno di noi ha degli snodi fondamentali che, rivalutati a posteriori, ci fanno riflettere. In alcuni momenti, senza sapere cosa ci sia dopo lo snodo, siamo chiamati a fare delle scelte complesse. Nel nostro caso, ossia quello di operatori che lavorano nelle terapie  ntensive neonatali, sono scelte che possono determinare la vita o la non vita dei neonati e delle loro famiglie- sottolinea Dotta- Si tratta di vite che possono essere stravolte sia che si prenda una strada, sia che se ne prenda un’altra”. E’ un lavoro in cui si deve aver “ben presente l’etica e la proporzionalità di quello che facciamo- evidenzia il neonatologo- l’ego rischia, infatti, di portarci a fare delle cose che possono essere gratificanti per noi ma del tutto futili per i neonati”.

 

Da qui l’importanza di evidenziare come “il concetto di traiettoria di vita o storia naturale della malattia possa indirizzare sin dall’epoca fetale, nell’immediato post nascita, l’operato dei medici verso scelte che devono saper distinguere tra potenziale efficacia e rischio di futilità, sempre nell’ottica del best interest del neonato”, spiega il medico. Quando ci si trova di fronte a un neonato fortemente pretermine, a delle gravi malformazioni o a una famiglia che ha subito un lutto perinatale inatteso, il ruolo del neonatologo e di tutto il team multidisciplinare (tra cui psicologi e infermieri) è fondamentale sia nel prendere decisioni che nel comunicare con le famiglie. “Dobbiamo sapere quali sono le emozioni che vivono i genitori, chiedergli come stanno, spiegare le nostre speranze, le nostre paure, i nostri obiettivi e i nostri valori- continua lo specialista- ricordando sempre che ad essere pessimista ci pensano i genitori, noi non dobbiamo farli sentire soli. Dobbiamo fargli capire che sono sostenuti”. Fondamentale, quindi, l’approccio che si ha nei confronti delle famiglie. Nell’atteggiamento del medico “non c’è solo il bambino di cui si sta parlando in quel momento, ma c’è anche il futuro di una famiglia e di altri possibili bambini di quella famiglia”, sottolinea Magda Di Renzo, analista junghiana ARPA-IAAP, responsabile del servizio di Terapia IdO, direttrice della scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicodinamica dell’età evolutiva IdO-MITE. “Come psicoterapeuti vediamo molti genitori che hanno vissuto storie di lutti perinatali, difficili nascite pretermine o che hanno bambini con handicap. Ci troviamo davanti due grandi scenari che cambiano in base a come è stato il rapporto con i medici e alla differenza che c’è stata nel delicato momento della restituzione della diagnosi- spiega Di Renzo- da una parte ci sono le famiglie che hanno sentito i medici come dei nemici, degli elementi persecutori, e dall’altra quelle che li hanno sentiti come ‘grandi vicini’, avendo percepito la loro umanità. Le prime, nel momento in cui vanno incontro a un’altra gravidanza, spesso proiettano il loro vissuto negativo”. Da qui la necessità di “una riflessione collettiva ed etica su quanto siano poco attenzionate queste condizioni che sono, invece, profondamente traumatiche e incidono sul futuro”. Compassione dunque è la parola chiave, “perché implica il farsi carico del dolore dell’altro. È un pezzetto in più rispetto all’empatia- conclude la psicoterapeuta- è quel pezzetto che fa la differenza e ci chiama responsabilmente al compito che dobbiamo svolgere”.

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