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di Enrico Cisnetto

Se qualcuno aveva ancora dei dubbi circa le reali intenzioni di Mario Draghi – restare a palazzo Chigi fino alla fine della legislatura, oppure farsi ammaliare dal Quirinale – dovrebbe aver dissipato ogni incertezza dopo averlo visto all’opera nella festosa cerimonia con cui si è celebrata la vittoria della Nazionale di calcio agli Europei: fare il presidente del Consiglio gli piace da morire, e continuerà a farlo finché le condizioni politiche glielo permetteranno. D’altra parte, non è il primo né sarà l’ultimo a innamorarsi di quel ruolo. Bene, meglio così: l’Italia ha bisogno che l’ex presidente della Bce continui nell’opera intrapresa, e l’Europa di riflesso. Ben venga, dunque, un successo sportivo a consolidare un quadro fin troppo esposto a stress, spesso inutili, quasi sempre evitabili. Ma sull’analogia tra la vittoria a Wembley e la ripresa del Paese ha ragione Giorgio La Malfa quando scrive che è suggestiva, ma va formulata nel senso opposto a quello usato (e abusato, con iperbole sociologiche da strapazzo) in questi giorni: il governo Draghi è oggi quello che era Roberto Mancini nel 2018 – d’altra parte il Parlamento è fermo a quell’anno maledetto lì – quando fu nominato commissario tecnico della Nazionale dopo l’esclusione dai Mondiali, cioè all’inizio di un lungo lavoro che tre anni dopo avrebbe dato i suoi frutti. E così come l’allenatore degli azzurri non avrebbe vinto nulla se non avesse portato fino in fondo il suo disegno, così ora il presidente del Consiglio rischierebbe di compromettere tutto se interrompesse – o fosse costretto a interrompere –l’esperimento che ha appena avviato.

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C’è in giro troppa euforia, per i miei gusti. Sia chiaro, dopo anni di stagnazione – non solo economica, ma anche sociale e culturale – e dopo il blackout impostoci dalla pandemia, il miglioramento del clima psicologico collettivo non può che rivelarsi salutare. Ma un conto è il ritorno della fiducia, che preserva la consapevolezza di essere all’inizio di un percorso che rimane lungo e difficile, e altra cosa è l’esaltazione – specie se si pretende che passi dalla dimensione sportiva a quella della vita quotidiana farneticando di “pil calcistico” – che è l’anticamera dell’inconsapevolezza e dell’irresponsabilità. Il sistema-Italia la sua coppa europea è ancora ben lontana dal vincerla: con l’ascesa al governo dei populisti e dei sovranisti, ha toccato il punto più basso del suo declino, che dura da oltre un quarto di secolo, e ora con Draghi ha cominciato a risalire la china, come la Nazionale con Mancini nel 2018. Ma la strada da fare è ancora tanta, e il prerequisito numero uno per riuscire nell’impresa – perché di una vera e propria impresa si tratta – è essere consapevoli della condizione da cui si parte e della quantità di cammino che ci attende.

 

Prendete la ripresa economica. Il ritocco all’insù, oltre quota 5%, della previsione di crescita per quest’anno è sicuramente una buona, anzi ottima notizia. Specie perché è accompagnata dalla stima per il 2022 di un ulteriore recupero che consentirà nel biennio di cancellare totalmente, e forse anche più, il crollo del pil procurato dalla recessione dell’anno scorso. Ma così come era sbagliato credere che nel 2020 senza la pandemia sarebbe andato tutto benone, mentre invece eravamo ancora alle prese con la non del tutto assorbita recessione del 2008 e seguenti, condizione malata che il Covid ha solo aggravato, altrettanto lo è oggi pensare che una volta recuperato il 9% di ricchezza perduto l’anno scorso saremo a posto. No, sarà soltanto l’inizio di un’opera lunga e complessa, che nel 2023 finiremmo col compromettere se dovessimo tornare ad una crescita non dico di quello “zero virgola” che ben conosciamo, ma anche tra l’1,5% e il 2%. Livello che non sarebbe sufficiente né a farci recuperare i gap accumulati negli scorsi decenni, né a farci tenere il passo con i presumibili tassi di crescita europei e mondiali, né, soprattutto, a compensare con l’aumento del denominatore (il pil) la spaventosa crescita del numeratore (il debito pubblico) nel rapporto debito-pil, quella frazione che ci angoscia (o dovrebbe angosciarci) perché segnala quanto manca al default del Paese.

 

Dunque, godiamoci i goal di Chiesa e le parate di Donnarumma – magari evitando assembramenti che nulla hanno aggiunto, anzi, alla festa per la vittoria contro la “perfida Albione” – e impariamo dal duo Mancini-Vialli (scusate, ma da sampdoriano non ne posso fare a meno…) che nessun traguardo ci è precluso, basta essere consapevoli dei limiti e dei mezzi che si hanno, e lavorarci sopra duramente. Ergo, rimbocchiamoci le maniche e affrontiamo le sfide – enormi – che abbiamo di fronte. Perché non si tratta solo (si fa per dire) di realizzare le riforme strutturali su cui si è impegnato il governo, che prima ancora che essere un vincolo europeo dovrebbero essere un obbligo di serietà nostro, e di spendere efficacemente e correttamente le risorse del Recovery, ma cogliere questa occasione – decisiva, ma ultima – per diventare un paese moderno, civile, efficiente. Insomma, per avviare un nuovo Rinascimento o, se preferite, una seconda Ricostruzione dopo quella post-bellica. Cosa che richiede, come ha ben scritto Paolo Pombeni, un cambio radicale di mentalità (proprio come Mancini ha chiesto ai suoi giocatori), che riguardi le classi dirigenti, pubbliche e private, ai diversi livelli di responsabilità, non meno che i semplici cittadini.

 

E questa consapevolezza, prima, e tensione morale, poi, non sembrano diffuse nella società, cui viene richiesta un’adesione convinta e concreta ai processi di modernizzazione del sistema-paese. E tantomeno nel ceto politico. Il quale preferisce mettere in piazza uno scontro tra un populismo di destra, basato sul “chissenefrega” vestito da politicamente scorretto privo di qualunque eresia, anzi, e un populismo di sinistra, imperniato sui mantra che vanno di moda (ecologismo, sostenibilità, parità, ecc.) ma che quasi sempre rimangono belle intenzioni ampiamente contraddette dai comportamenti personali e dalle scelte politiche. Populismi uniti dalla esaltazione dei diritti – seppure diversamente declinati: fai quel che ti pare, in un caso, garantire tutto a tutti, nell’altro – e dall’altrettanto comune oblio dei doveri. Atteggiamento, questo che si riflette nel comportamento dei partiti nei confronti di Draghi: lo si sopporta, ma non lo si supporta. Cosa che da un lato spinge il presidente del Consiglio a fare da sé (vedi le nomine), con ciò creando irritazioni, ma dall’altro lo indebolisce, spingendolo nel vicolo stretto e chiuso delle mediazioni infinite.

 

C’è dunque da compiere una “rivoluzione culturale”, un salto di paradigma senza il quale le riforme rischiano di restare lettera morta, i miglioramenti infrastrutturali dovuti alle risorse e alle iniziative pubbliche rivelarsi lenti e non sufficienti a trasformare nel profondo un paese vetusto e antiquato, gli investimenti privati a non disegnare un capitalismo meno provinciale. Spesso si definisce questa ambizione come “riscatto morale”. È vero, c’è anche questo, ma non solo questo. Prima ancora, c’è un tema di mentalità e di metodo. Ed è soprattutto di questo di cui Draghi deve farsi carico. C’è bisogno di esempi concreti, di gesti simbolici (non retorici), di pedagogia metodologica. E c’è bisogno di riattivare i circuiti della politica: quella dei partiti, dei corpi intermedi, dei circoli di maturazione delle idee.

 

Nel primo caso torno a ribadire la necessità che si formi, al di fuori delle forze esistenti che hanno già dimostrato tutti i loro limiti, quel partito della modernità che nelle circostanze date ho chiamato “il partito di Draghi, senza Draghi”. Significa che il presidente del Consiglio, per evitare un Monti 2, non lo può né fondare né tantomeno dirigere. Ma può indirettamente favorirne la nascita, i mezzi non gli mancano e i modi si trovano. Per esempio, se decidesse di andare nella direzione, che qui gli è stata suggerita, di promuovere la creazione di una Commissione Costituente per riscrivere le regole del gioco e ridisegnare l’architettura istituzionale del Paese (premessa indispensabile di qualsiasi processo di modernizzazione), ecco che sulla promozione di questo progetto potrebbe nascere il partito della rifondazione e del risorgimento nazionale.

 

Nello stesso tempo va ridata forza ai corpi intermedi della società. Difficile rianimare sindacati e associazioni dei datori di lavoro ormai sclerotizzate, ma l’avvio della modernizzazione politico-istituzionale ed economico-sociale può dare a lavoratori e imprenditori il coraggio di dotarsi di rappresentanze nuove, deideologizzate e meno burocratiche. E anche qui Draghi può dare una mano, invertendo quella tendenza alla disintermediazione degli attori sociali ideata da Renzi. Non si tratta, ovviamente, di rianimare i vecchi riti della concertazione fine a sé stessa, produttrice di veti incrociati paralizzanti, ma di seppellire una volta per sempre l’idea che governanti e governati siano e debbano stare sullo stesso piano (anticamera dell’uno vale uno di cui stiamo pagando le conseguenze) saltando ogni intermediazione sociale.

 

E infine i luoghi delle idee. La rivoluzione culturale di cui abbiamo bisogno passa anche e soprattutto attraverso la riaccensione del forno dei pensieri e dei progetti. I mezzi sono tanti: i media, gli eventi culturali, i centri studi, le associazioni e le fondazioni. Suggerire di aprire la finestra e far girare aria fresca, così come compiere qualche scelta azzeccata (penso alla Rai) sono tra le possibilità di cui Draghi dispone. Le usi. Certo, bisogna che il suo esperimento duri. E per arrivare a giocarsi una finale europea come Mancini, ci vuole ancora una legislatura intera, oltre che finire quella in corso. Cominciamo a pensarci.
 

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