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Pierfranco Bruni

Magistrale il Fabrizio De André della ricerca dei linguaggi. Non degli stili. Dei linguaggi scavati nella parola. Nello spazio e nel tempo delle parole dentro una “eloquenzia” sottile che definisce la semantica dei suoni. Delle forme. Degli accordi. In una sperimentazione che va dai mosaici pre medievali sino alla modernità di tutto il Novecento, anticipando le varianti musico – testuali della contemporaneità. De André trovava nella parola non la musicalità ma il suono. È qui la strategia della ricerca involontaria tra suono e musica.

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Ebbene Fabrizio ha avuto la forza di sostare dentro e tra le pause  del linguaggio. Ciò era riuscito a farlo solo il Dante Alighieri della “Vita nova”. Neppure quello della “Commedia”. Penso costantemente al De André degli anni fine 1960, sino addirittura a “Creuza de ma”. Il De André che era oltre la modernità cosiddetta “sperimentale” e percepiva l’intuizione di una tradizione proprio nel “vulgari”. Partendo dalla misura degli “stilemi” della ballata e superando il crepuscolare “E fu la notte” comprese subito che la parola stava attraversando una terribile sconfitta non solo nella comunicazione, ma soprattutto nella sua definizione in una società del linguaggio in transizione e consumazione.

 

Lo studio sulle letterature di De André ha portato la cultura italiana a riflettere antropologicamente sulle comparazioni e soprattutto sulle contaminazioni. Le lingue altre sono i portati di culture altre in una visione, appunto, di “sistemi” antro – etnici. Ma Dante non ha compiuto la stessa operazione con il suo “De vulgari” misurando la parola come linguaggio alle contaminazioni come conoscenza di una “eloquenzia” che portava sì le sue radici latine,  ma innescava ciò che sarebbe diventato il “popolare” nella comunicazioni a tutto tondo. Non perché viene dal popolo o è rivolto al popolo ma perché è contaminato con altre tipologie di culture e di civiltà. Il cosiddetto “popolare” è la manifestazione della necessità del confronto tra popoli e civiltà, un confronto che necessariamente conduce alla vitalità delle contaminazioni. Una lingua contamina perché è contaminata.

 

Dante ha lavorato molto su tale concessione alla parola sia con la “Vita nova” sia, in modo particolare con le “Rime” fino alla teorizzazione del “De vulgari” in struttura formale. Ha “spezzato” il latino di Virgilio usando linguisticamente le “metamorfosi” di Ovidio superando completamente lo schema di Brunetto Latini. Nel Dante del “De vulgari” Brunetto non c’è più. È smessa la lezione di Brunetto. Insistono i corsi e i ricorsi che annunciano l’umanesimo che porterà al barocco. Ma le “nuvole” di De André sono “nuvole barocche” in una temperie di attraversamento  comunque, di “selve oscure” e di bolge devastanti sul piano esistenziale, in cui l’ironia prevale sul drammatico come nell’attraversamento di uno “Spoon River” che nasce, in De André, dalla equiparazione –  separazione  tra il male e il bene, ovvero tra la morte e la vita.  Male e bene dentro la persuasione del dolore e della ironia.

 

La diversità tra Dante e De André in cosa consiste, se di diversità  si vuole parlare, anche se parlerei di articolazione, al di là della questione linguistica? In Dante insistono la condanna, il giudizio, il peccato. In De André no. L’antropologia che è trasumanar di linguaggi, semantiche e epocali processi (a volte tipica in tutta l’età medievale) diventa una “organizzazione” del completo superamento e quindi del disinteresse del libero arbitrio. Pur essendo due poeti “maledetti” abitano la parola con la resistenza stessa della parola. Dicotomia di un paradosso dell’assurdo nella metafisica della libertà delle esistenze. Dante giudica. De André non processa mai sino ad arrivare alla splendida “Durango” di “Rimini” e concludere con “Anime salve”.  Ciò che lega e caratterizza sia Dante che De André è la parola mel suono. Ciò è la spaziatura dell’ombra dentro una luce che si serve della trasparenza della penombra.

 

Dante con la “Commedia” non salva le anime, ma le condizioni attraverso le Cantiche e applica il metodo giudizio. Questa è una lettura  certamente. Ma restano entrambi rivoluzionari e anarchici. Eretici fino all’esilio dantesco. Eretico fino al testo di “Don Raffaè” in De André. Ma in fondo due maestri della profezia eretica che hanno saputo raccontare l’invisibile partendo dal visibile. Ovvero restando dentro il loro tempo e non facendo mai della storia una appartenenza con il reale.

 

In sintesi.

Le metafore sono un circuito inevitabile nella parola. Senza di esse il linguaggio poetico si sclerotizza e diventa cronaca in rappresentazione senza teatro. Dante incastra le metafore nel colloquiante prosimetro della ” Vita nova”.  Incantevole. De André circonda e penetra il “pescatore” in una metafora sublime che ha le voci degli spazi tra la ricerca delle ombre e l’incomprensione della luce. Dante ha bisogno di rivedere le stelle. De André sa che le stelle sono percezioni nel passaggio delle ombre che vanno attraversate perché,  come le nuvole di Aristofane, vanno e vengono. Ciò è possibile se si ha la forza di sperimentare la parola nei linguaggi. Questo è un singolare viaggio viaggiato sia da Dante che da de André. Una consapevolezza oltre le idee, ma dentro la profondità del personale vocabolario che è una stretta unica tra Parola e Pensiero.

 

Le articolazioni?

Due contesti. Due tempi. Civiltà altre. Processi culturali che hanno segnato le nostre vite. Dante e De André. Storie diventate identità. Sono storie mai implicate nella storia reale bensì nel reale del tempo.  Un tempo temporale reso intemporale dalla profezia del loro sentire e percepire. Esiste una storia della metafora? Con Dante e De André la metafora è l’immaginario sulla scena dell’esistenza. Una riappacificazione con i linguaggi delle epoche che supera completamente Bembo, Manzoni e la lingua moderna.

 

 

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