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Rispetto ad altre forme di creazione artistica, la progettazione architettonica vincola in misura decisamente maggiore ai limiti permessi dalla committenza (un testo o un dipinto rifiutato dal committente potrà comunque essere prodotto e conservato dall’autore mentre un’opera architettonica non approvata non vedrà mai la luce) ma al contempo ha un forte valore pubblico, ben oltre le mere esigenze espresse da chi l’ha commissionata. Di questo paradosso era a mio avviso ben consapevole Giò Ponti nella travagliata realizzazione della Concattedrale della Gran Madre di Dio a Taranto, una delle sue più importanti opere, sulla cui genesi si sofferma – in occasione dei cinquant’anni dall’inaugurazione nel 1970 – un’interessante mostra negli spazi espositivi del Museo Diocesano tarantino. Nella copiosa documentazione esposta sono presenti i ripensamenti indotti anche da motivi di ordine economico – come è peraltro esplicitato nelle interessanti note in corsivo presenti ai margini degli schizzi preparatori – a partire dal primo progetto per il tempio di Taranto, il quale risultava sotto certi versi più simile alla celebre Chiesa di San Francesco d’Assisi al Fopponino di Milano che alla stesura definitiva dell’edificio tarantino. I continui cambiamenti di progettazione non sono però solo il frutto di esigenze economiche ma esprimono ciò che Giò Ponti stesso definì “male della cattedrale”, frutto del peso della grande responsabilità di creare uno spazio di forte rilevanza pubblica per il popolo dei fedeli di una città in tumultuosa espansione quale era Taranto negli Anni Sessanta. Si passa così a ridimensionare inizialmente l’altezza della navata fino ad un’altissima seconda facciata esterna corrispondente all’interno ad una “camera di luce” che verrà in seguito sostituita da una vela visibile solo esternamente, dapprima metallica (in mezzo a due piloni laterali in calcestruzzo) e poi totalmente in cemento armato. Il discorso inaugurale di Giò Ponti riflette in pieno il suo travaglio: richiamandosi alla definizione di Nervi dell’architettura come “espressione di un pensiero” nella materia, Ponti svela la difficoltà di dover non solo esprimere un pensiero proprio, bensì riuscire anche ad interpretare quello della popolazione a cui l’edificio sacro è destinato. Non a caso dal suo punto di vista non saranno i materiali da costruzione a consentire la durata della nuova Cattedrale, bensì la fedeltà e la cura da parte della comunità: per lui con l’inaugurazione l’opera non si può infatti dire “ultimata” ma solo resa autonoma dal suo progettista e “proseguita” da coloro a cui è consegnata. L’esperienza di Giò Ponti come designer è ben visibile nei documenti esposti relativi ad altari e suppellettili della chiesa, disegnati dall’architetto fino ai minimi dettagli, con precise indicazioni alle maestranze per la realizzazione. L’esposizione è completata dal ricco carteggio tra Ponti e l’Arcivescovo di Taranto Guglielmo Motolese che gli commissionò il progetto, in cui emerge il profondo rapporto personale che si instaurò tra i due e la sensibilità d’animo dell’architetto. Partendo però dalle convinzioni di Giò Ponti – che lo portarono anche a mettere in discussione la tradizionale concezione vitruviana dei rapporti tra committente, progettista e opera – non sorprende che l’architetto, attento alle parole, non definisca mai l’Arcivescovo di Taranto con il termine “committente” bensì lo chiami sempre “protettore”, identificando nella cittadinanza tarantina la vera destinataria dell’opera.

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La mostra (a cura di F. Errico, G. Rossi e F. Simone, con M. Piccarreta e la collaborazione di M. Aprea, T. Cipulli, C. D’Introno, L. Lentini, S. Ruffa) è visitabile fino al 26 settembre 2021.

Salvatore G.M. Mallardi

 

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