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FORMIDABILI (ANCHE) QUESTI ANNI: IL NUOVO LIBRO DI PARIDE LEPORACE

di Domenico Bilotti

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Paride Leporace difficilmente è giornalista e scrittore che torna due volte sul luogo del delitto. Lo testimonia la varietà della sua penna, che ha toccato dalla giudiziaria allo sport passando per la musica e il cinema, senza dimenticare il gusto dell’editoriale irsuto e polemico o del corsivo volante, a insinuare, come certe ali del calcio di cui ci innamorammo. Si può dire anzi che questo “Cosangeles” (pubblicato per i tipi di Pellegrini, Cosenza, 2021) sia a tutti gli effetti la sua prima apparizione sul luogo del delitto “par excellence”: la sua città, in un preciso frangente temporale, così archetipico di sogni quanto di incubi da diventare distopico nel suo momento di maggior realismo.

Cosenza è fondamentalmente una città di provincia, alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli Ottanta. Sta scattando, ma forse ancora non c’è, una classe media di massa; c’è invece molto il timbro elegante di professioni di concetto esercitate con grande spessore: professori, accademici, giornalisti, militanti. Non incidono però del tutto sull’immaginario collettivo, che è quello di una città di partiti, di famiglie, di professioni, di liceali, troppo spesso di sguatteri. In quel frangente, lo stesso Leporace con moltissimi altri è tra gli scoperchiatori, più che i semplici promotori, di un intervenuto mutamento di paradigma: la contestazione, il dissenso e la disobbedienza sono sempre minoranza e pagano il calice della libertà contro la corrente fino alla feccia; per la prima volta però egemonizzano uno scenario inter-classista, debordante, estroso in tutte le pieghe dell’estro, dall’autocompiacimento fino al solidarismo estremo. Autonomi, agitatori, ultras di calcio, a fianco di bottegai, quartierani, senzatetto, afflitti dalle dipendenze tutte – quella da rispettabilità sociale come quella da eroina. La Cosenza degli anni Settanta e Ottanta ha sempre saputo rieternare la propria aurea imperdibile tutte le volte in cui sembrava averla persa: il buongoverno socialista negli anni Novanta, che cercò di schierarsi vicino a quel mondo in un rapporto teso che forse per alcuni fu “do ut des” e per altri “redde rationem”; oggi, con le tendenze cittadine che sanno ancora di stadio, aggregazione, chiasso, adunanza festaiola, contaminazione di linguaggi, culture, format, alternative e conformità.

Esaurita l’analisi fenomenologica di un periodo che riscrive le abitudini di massa di una città – invero meccanismi simili di insurrezione alla narrazione rassegnata, ciarliera, impomatata degli anni Ottanta avvennero anche in altre città italiane – possiamo passare serenamente al contenuto del libro, che ha una ritmica fluviale, come se il Crati si trovasse tra Gotham City e le tarantelle. Protagonisti sono il “creativo” Ciccio Paradiso, arguto o stordito secondo la cadenza dei diversi squarci narrativi che compongono poi il volume a forma unitaria nonostante l’andamento per antologia di racconti, e l’ineffabile Jo Pinter, misto di ironia tagliente e malinconica indulgenza sulle icone di un tempo che non si lascia seppellire mai perché corre anziché star fermo. E se tutte le storie di Cosangeles, terra di “Calabrifornia”, hanno una loro autonomia, che le rende davvero ben godibili anche per chi non ha vissuto la città e scopre spiagge, feste, accozzaglie, malavita di strada tuttavia in fortissima ascesa, ci pare ancor più bello leggere il testo proprio in riva alle confluenze. Vi si coglie una sceneggiatura urbana, un circo danzante, un Barnum d’altri tempi, che forse, si, quello davvero, coi suoi sconvolti e i suoi ritmi, non è più traslabile all’oggi per come è. Brillantemente però vi si vede pure un’imperitura grande bellezza, che è la scoperta del prossimo attraverso il vizio di scrivere e viceversa. Andata e ritorno da Cosangeles.

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