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di Enrico Cisnetto

Il primo set della partita delle elezioni amministrative si è chiuso con due vincitori assoluti ma non proclamati, con un potenziale vincitore che dovrà dimostrare di esserlo effettivamente, e con uno sconfitto uscito dalle urne così perdente da farci sperare che esca di scena definitivamente.

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Dei due vincitori, uno è il partito degli astenuti, di gran lunga primo con una media che sfiora il 50% e che nelle maggiori città, a cominciare da Roma e Milano, l’ha superato. L’altro è Mario Draghi, che pur non partecipando alla kermesse elettorale, l’ha indirettamente influenzata con il pragmatismo con cui governa, del tutto estraneo alla modalità politica dell’ultimo quarto di secolo e distante anni luce dalla cifra degli stessi partiti che lo sorreggono, rimasti sulle barricate di contrapposizioni stupide e sterili senza capire che il Covid le ha spazzate via dalla testa dei cittadini. Due cose, astensione ed “effetto Draghi”, che in realtà sono due facce di una stessa medaglia, che porta il nome di “crisi irreversibile del sistema politico italiano”. È questa crisi, esplosa in modo deflagrante per il combinato disposto del palese fallimento del voto di protesta che aveva caratterizzato le elezioni politiche del 2018 e del cambio di paradigmi che la pandemia ha prodotto nei cittadini, che ha generato prima l’avvento di una figura come quella di Draghi – che anche senza volerla enfaticamente idealizzare, incarna tratti come competenza, sobrietà e credibilità di cui tutta la politica nazionale e locale è priva, salvo qualche rarissima eccezione – e poi ha indotto metà degli aventi diritto al voto a restare a casa. Sanzionando così tutte le forze politiche, senza distinzione alcuna, dato che nessuna ha saputo leggere i fenomeni e dare loro risposte adeguate.

 

Anche perchè si è preferito rifugiarsi in valutazioni del tutto fuorvianti e autoassolutorie, tipo quella che vorrebbe far credere che la causa della disaffezione crescente dei cittadini sia l’arrivo a palazzo Chigi di un tecnico privo di mandato popolare e sorretto in Parlamento da una grande ammucchiata che rende indistinte le diverse posizioni. Mentre è chiaro come, al contrario, Draghi rappresenti la conseguenza e non la causa della caduta verticale di credibilità e rappresentatività delle forze politiche e parlamentari. Il grosso dell’offerta politica era populista, quando non anche dilettantesca, e giustamente gli italiani l’hanno rifiutata. E persino quegli elettori inclini al voto di protesta si sono astenuti, delusi dell’uso che i grillini hanno fatto del “vaffa”, e ciò spiega il crollo verticale dei 5stelle a queste comunali, già iniziato alle europee del 2019 e proseguito alle regionali dell’anno scorso. Un disastro che, accompagnato con gli inciampi (non solo elettorali) di Salvini e il freno alle ambizioni della Meloni, archivia – o, per essere più prudenti, inizia ad archiviare – la maledetta stagione del nazional-populismo. Ecco chi è il vero perdente del turno elettorale: quell’impasto che somma populismo, sovranismo e giustizialismo. E che riguarda tutti: non solo chi rivendica come propri questi tratti, ma anche chi, come il Pd e Forza Italia, li rifugge ma poi finisce per incarnarli nei fatti e si allea con le forze che sono dichiaratamente tali.

 

E che si stia voltando pagina lo dimostra il risultato di Carlo Calenda a Roma, cioè quello che ho definito il potenziale vincitore di questo turno elettorale. Perché quei 220 mila voti, pari a quasi il 20%, non sono serviti a mandarlo al ballottaggio, ma lo mettono nella condizione di sedersi al tavolo della politica nazionale. A due condizioni, però. La prima: che smetta di fare “l’one man show” e sappia essere federatore. Non solo e non tanto di ciò che già c’è sulla scena politica, fuori dagli schieramenti o ai loro margini, quanto tessitore di una trama più vasta che consenta di creare una forza liberal-riformista capace di imprimere una svolta non solo alla deriva populista – che, come ho detto, sembra essere un’escrescenza in via di riassorbimento – ma anche alla sua capacità di permeare il bipolarismo trasformandolo in “bipopulismo”. Una cosa che Calenda non può fare da solo, salvo condannarsi a sprecare quel serbatoio di voti che ha saputo conquistare e soprattutto le potenzialità che esso rappresenta. Fin qui ha riscosso simpatie, ha aperto dialoghi, ma non ha costruito una classe dirigente e tantomeno un sistema di alleanze. Per farlo deve rassegnarsi ad essere uno degli attori, magari il più rilevante, ma pur sempre un co-protagonista. Ci sono tante realtà e personalità in giro, Calenda sappia generosamente coinvolgerle senza fare il padrone di casa. Se invece commetterà l’errore, che altri hanno fatto prima di lui, di insistere sul “partito personale”, non solo fallirà nell’intento che so essere suo, ma rischia di essere una delle tante meteore che hanno attraversato la politica nostrana senza lasciare traccia. La seconda condizione è che eviti di assomigliare caratterialmente a Renzi. Faccia pure il Giamburrasca, che ci vuole, ma sia consapevole che certe sue asperità e spigolosità rischiano seriamente di renderlo antipatico. Renzi ha già il primato nella specialità, glielo lasci e faccia a meno di mettersi in competizione.

 

Lo spazio politico ed elettorale che hanno di fronte coloro che vorranno provarci è enorme. Perchè l’agenda Draghi non ha oggi alcuna rappresentanza, mentre sono convinto sia largamente maggioritaria nel Paese. Si tratta di darle forma, cogliendo l’occasione – irripetibile – che essa corrisponde in larga misura ai piani di sviluppo e alle riforme strutturali da realizzare che sono comprese nel patto che abbiamo fatto con l’Europa. Ho letto che l’amico Christian Rocca, direttore del giornale online Linkiesta, ha convocato per sabato 13 novembre al Teatro Parenti di Milano tutti coloro che credono in questa prospettiva. Il suo intendimento, a quanto scrive, è quello di aggregare tutti quelli che vogliono “offrire una sponda anti-populista al Pd rimasto orfano dei 5stelle, e di dare rappresentanza politica all’agenda Draghi”. Bene, sempre che Enrico Letta e il Pd si rendano conto di essere rimasti orfani. Capire, cioè, che oltre ad essere deprecabile sul piano politico e programmatico, l’alleanza con i grillini non si può fare per il venir meno dell’alleato. Invece, il segretario del Pd, per ora, ha preferito rivendicare una vittoria elettorale che in realtà è la sconfitta degli altri, e lanciare l’idea del “nuovo Ulivo”, che è solo uno slogan vuoto. Per fortuna, è probabile che ci pensi l’ineffabile avvocato Conte – pronto ora a fare da ruota di scorta dei Democratici, dopo essersi autodefinito ed essere stato definito dalle “teste pensanti” del Pd capitanate da Bettini nientemeno che “il punto di riferimento di tutti i progressisti” – a dare il colpo di grazia a quel che resta del Movimento “uno vale uno”. In un modo o nell’altro, Letta sarà costretto dagli eventi non solo a ridefinire le alleanze, ma prima ancora a scegliere che tipo di forza essere, quali ceti e quali interessi rappresentare. Certo che se l’inizio di questo nuovo percorso obbligato sarà lasciare a Conte, come gli è stato promesso, il seggio alla Camera di Gualtieri in caso di sua vittoria nel ballottaggio per il Campidoglio, allora ci sarebbe ben poco da sperare.

 

Naturalmente, le probabilità che il Pd si liberi, anche suo malgrado, dalla camicia di forza della contrapposizione bipolare, saranno tanto più alte quanto anche il centrodestra – anzi il destracentro, come Massimiliano Panarari giustamente specifica – sarà costretto a fare i conti con le sue contraddizioni. Per esempio, se la Lega andrà a congresso entro fine anno – e cioè prima che entri nel vivo la partita per il Quirinale – mettendo Salvini in minoranza o spaccandosi (o entrambe le cose), questo rappresenterà un passaggio molto importante per la scomposizione e ricomposizione del sistema politico. Altrettanto importante sarà vedere come la Meloni fronteggerà i limiti evidenti che mostra il suo partito, che l’ubriacatura da sondaggi – che la realtà si è incaricata di mostrare eccessivi, esattamente come è capitato in Francia al Rassemblement National di Marine Le Pen alle regionali del giugno scorso – e la bolla mediatica che ha gonfiato la sua leadership, avevano messo in secondo piano.

 

Insomma, così come la crisi senza ritorno dei 5stelle rende ancor più fragile di quanto già non fosse la prospettiva del centrosinistra, così la crisi di Salvini e le difficoltà della Meloni, con Forza Italia in via di definitivo esaurimento, rendono non meno effimera la prospettiva del destracentro. Con ciò rendendo ancor più grande e urgente la nascita della nuova realtà liberal-riformista di cui ho parlato. La “agenda Draghi” merita, e attende, rappresentanza politica.
 

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