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ALLA FINE SARÀ MATTARELLA BIS

CON DRAGHI CHE RESTA AL GOVERNO

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MA ALLA SOLUZIONE MIGLIORE

CI SI ARRIVERÀ NEL PEGGIORE DEI MODI
di Enrico Cisnetto

È sempre molto difficile distinguere le previsioni oggettive dalle speranze personali. Per questo fatico a capire dove finisce l’una cosa e inizia l’altra quando, in queste ore, mi viene da pensare che probabilmente la delicata partita del Quirinale – nella quale l’Italia si gioca la possibilità o meno di consolidare il suo tentativo di riscatto e rinascita – finirà come avevo auspicato, insieme a molti altri: il bis di Sergio Mattarella con Mario Draghi che rimane a Palazzo Chigi. Pur se il condizionale è d’obbligo nel penoso contesto che si è venuto a creare, e che ha indotto Rino Formica a parlare di “un’elezione tombola” (ci voleva un 95enne della Prima Repubblica a dire le cose come stanno) tutto sembra andare in quella virtuosa direzione. Ma una cosa è certa: se davvero andrà così, vorrà dire che accadrà la cosa migliore nel peggiore dei modi possibili. Mi spiego. Scrivevo in questa sede il 13 novembre scorso: “Ho l’impressione che in questo momento nel Paese il particulare di gucciardiniana memoria – che rimane egoismo anche quando indossa gli abiti della correttezza formale – stia prevalendo sulla generosità politica e istituzionale”. Mi riferivo alla pur comprensibile intenzione del Capo dello Stato di rendersi indisponibile ad una riconferma, così come al desiderio del presidente del Consiglio, mai esplicitato, ma reso chiaro come il sole, di lasciare Palazzo Chigi per il Quirinale. Mi sembrava allora, e a maggior ragione mi sembra ora che manca una manciata di giorni alla prima “chiama” e la confusione regna sovrana, che se i due avessero attinto alla prodigalità anziché cedere all’egocentrismo, avrebbero reso l’ennesimo servizio al Paese, che gliene sarebbe stato grato. Non lo hanno fatto all’inizio della vicenda quirinalizia, quando le loro rispettive disponibilità avrebbero fatto abortire tutte le speculazioni politiche, peraltro di livello infimo, cui stiamo assistendo da oltre due mesi. Per esempio, avrebbero evitato sul nascere la candidatura di Silvio Berlusconi, evenienza considerata da tutti – avversari, alleati più o meno presunti e amici ragionevoli – come una vera e propria iattura, anche a dispetto delle prese di posizione ufficiali come quella fintamente unanime di ieri. Che invece ora c’è, e condiziona maledettamente il gioco – non fosse altro perchè il Cavaliere ci crede davvero, visto che la considera l’ultima sfida della sua avventurosa vita – anche se alla fine è inesorabilmente destinata a infrangersi contro lo scoglio dei franchi tiratori.

 

Poi il fatto che se così fosse il centrodestra non sarebbe più legittimato ad indicare un altro nome, compiendo un suicidio politico incredibile, o che se invece, per una qualche coincidenza astrale, il giochetto del Cavaliere dovesse riuscire, lo spread volerebbe come nel 2011 e si andrebbe dritti ad elezioni deliranti, sono cose che a nessuno viene in mente di considerare.

Forse, anzi probabilmente, i due, Mattarella e Draghi, faranno a ridosso del voto, o durante il corso delle votazioni, ciò che non hanno fatto prima. Sarà sotto la pressione delle emergenze – tutte già in piedi a suo tempo, e comunque perfettamente pronosticabili – e delle circostanze, non ultima l’ingigantirsi ogni giorno di più dello spettro berlusconiano. Mattarella si è reso conto che ostinarsi nel diniego aprirebbe le porte ad un caos incontrollabile che gli impedirebbe, almeno moralmente, di godersi il meritato riposo, mentre Draghi è troppo intelligente e troppo attento alla cura della sua immagine e della sua autorevolezza per non riflettere sull’appannamento che ha subito negli ultimi tempi. Devono solo trovare le vie d’uscita dai rispettivi labirinti in cui si sono infilati.

Per il presidente della Repubblica non sarebbe difficile: basterebbe far evocare da chi lo vorrebbe ancora al Colle, e sono tanti, la necessità istituzionale di far coincidere la nomina del Capo dello Stato con la formazione della nuova Camera e del nuovo Senato, che con le prossime elezioni saranno decurtati di circa un terzo dei loro membri. Non ha senso, infatti, far eleggere ora un presidente per 7 anni da un’assemblea che è destinata ad essere modificata non (solo) dal voto popolare, ma per effetto della legge che ha ridotto il numero dei parlamentari, e quindi ha modificato in modo radicale la platea dei “grandi elettori” dell’inquilino del Quirinale. Così facendo si metterebbe di fatto, pur rispettando la forma del mandato pieno, la data di scadenza al bis di Mattarella: subito dopo le elezioni del 2023. Una scelta che sarebbe utilissima al Paese, che in questo momento non ha certo bisogno di essere paralizzato, e farebbe comodo alle forze politiche (se solo lo capissero).

 

La via d’uscita per Draghi è leggermente più complicata, non fosse altro perchè ha avuto diverse occasioni per tirarsi fuori e non l’ha fatto, scegliendo di tenersi la porta aperta pur potendo sostenere senza (troppo) arrossire di non aver mai parlato di una sua candidatura. Può decidere di rimanere nell’equivoco, ma deve sapere che così lui è un candidato di fatto che rischia seriamente di essere bocciato, anche perchè un uomo del suo standing non può non essere eletto nelle prime tre votazioni a maggioranza qualificata. Ma è ormai chiaro che la sua nomina farebbe aprire una crisi di governo che nessuno ha la minima idea di come gestire (Draghi ce l’ha, ma non è praticabile, perchè nessun altro tecnico sarebbe accettato), cosa che porterebbe alle elezioni anticipate (circostanza indigeribile alla stragrande maggioranza dei parlamentari e a molti partiti). Circostanza che, paradossalmente, potrebbe verificarsi anche se lui non venisse eletto (ma fosse votato). Questo non perchè esista una correlazione diretta tra la maggioranza di governo (quale essa sia) e le alleanze che si determinano per eleggere il presidente della Repubblica, ma perchè i non detto di Draghi e i tatticismi (da quattro soldi) dei leader politici hanno concorso a far diventare vero questo falso assioma.

A concorrere all’affermazione, seppure al fotofinish, della “doppia continuità”, dovrebbe essere anche la consapevolezza che senza il Mattarella bis e senza Draghi, resterebbe un’unica candidatura spendibile nelle prime votazioni (se non nelle tre a maggioranza qualificata, entro le prime due o tre a maggioranza assoluta): quella di Giuliano Amato. Che tra l’altro il 28 gennaio, cioè il giorno della quinta votazione per il Quirinale, sarà nominato presidente della Corte Costituzionale, aumentando così il suo già alto standing. Amato vanta molti più estimatori pronti a votarlo di quanto non si immagini, ma in una fase in cui sia per ragioni di rotazione con i precedenti Presidenti sia per peso parlamentare, il centro-destra rivendica a buon diritto di dare le carte quirinalizie, occorrerebbe che il suo nome fosse fatto da Berlusconi o da Salvini, per poi essere accettato dal centro-sinistra. Cosa per la quale servirebbe lungimiranza politica e sapienza tattica che non sembrano proprio albergare da quelle parti.

 

Al di fuori di queste tre ipotesi – Mattarella-bis, Draghi o Amato – si aprirebbe un tutti contro tutti, alimentato dal fatto che ciascuno di coloro che calcano la scena politica si sentirebbe legittimato a concorrere. Uomo o donna che sia. L’elenco è lungo, anzi lunghissimo, e le indiscrezioni di queste settimane in qualche modo hanno contribuito a formarlo. Potrei riformularlo con le mie priorità, basate su giudizi personali, ma sarebbe un esercizio inutile, perchè è sicuro che la bagarre – o “tombolata”, per dirla con Formica – finirebbe per sacrificare ogni elemento di ragionevolezza a favore della più pura casualità.

 

Sullo sfondo di questa “tombolata” c’è un governo che deve trovare il filo programmatico che sembra aver smarrito, distratto dal Quirinale, e un Paese che rischia di perdere il bene più prezioso che l’arrivo a Palazzo Chigi di una personalità come quella dell’ex presidente della Bce gli aveva regalato, la fiducia. Quella dei cittadini, che avevano visto nel decisionismo con cui era stata realizzata la prima fase del piano vaccinale e nella robusta ripresa economica i segni di un’inversione di tendenza che si aspettava da un quarto di secolo; quella dell’Europa, che aveva deciso di mettere mano al portafoglio – con gli acquisti di titoli del nostro debito pubblico da parte della banca centrale (ha in mano ormai un terzo del totale) e con le risorse del Next Generation Ue che finanziano il nostro Pnrr – e che ora osserva con preoccupazione e sconcerto l’involversi della situazione italiana; quella dei mercati, che lo spread intorno ai 140 punti (+55% dall’inizio dell’era Draghi) indica essere una fiducia molto più flebile rispetto a 11 mesi fa. Guai se quella trama programmatica si strappasse, guai se quei diversi sentimenti di fiducia andassero perduti. Ci pensassero sopra tutti, in un sussulto di generosità istituzionale. Che, senza, non ce ne sarà più per nessuno.
 

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