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Una spada di Damocle sul futuro dei giovani

di Francesco S. Amoroso

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Nel nostro Paese 23 milioni sono le persone che hanno una occupazione, mentre le pensioni da pagare sono 17 milioni; di questi 23 milioni 5 milioni di lavoratori hanno lunghi periodi di inattività, che ha per conseguenza, una diminuzione di contributi previdenziali versati.

La spesa per le pensioni è in crescita costante, e ammonta a quasi 300 miliardi, il 16,9% del nostro PIL (Prodotto interno lordo, cioè la ricchezza prodotta in Italia) secondo valore al mondo dopo la Grecia, che rappresenta più del 30% della spesa pubblica italiana.

È positiva la tendenza dell’aumento dei pensionati, perché questo significa che l’aspettativa di vita continua a salire nel nostro Paese, ed è oggi una fra le più alte del mondo.

Al contempo, purtroppo, diminuisce la natalità. L’Istat ha certificato un record negativo nel 2020, l’anno della pandemia, quando i bambini nati sono stati meno di 405.000 (meno 15.000 rispetto al 2019). La popolazione italiana scende, e di riflesso aumentano i pensionati da mantenere con i contributi di chi lavora.

Insomma la parità – un pensionato per ogni lavoratore – non sembra essere lontana, ed il rapporto con la popolazione attiva è già oggi sotto il livello di guardia.

A questo punto è necessario soffermarsi su una delle cause di questa probabile futura “bomba” previdenziale, che grava come una spada di Damocle sulle giovani generazioni, iniziata con le baby pensioni dell’esecutivo Rumor nel 1973.

Le baby pensioni hanno consentito a migliaia di lavoratori pubblici, di anticipare l’età del pensionamento all’età che per molti giovani di oggi è quella della prima occupazione stabile, purtroppo.

Dicevano saggiamente i latini mala tempora currunt, lavorativamente parlando, per i nostri giovani.

14 anni 6 mesi e un giorno per le donne con figli, 19 anni 6 mesi e un giorno per gli uomini.

Un’agevolazione durata quasi vent’anni, e che fu abolita dal Governo Amato nel 1992, che ha consentito il ritiro dal lavoro a persone che grazie ai requisiti richiesti erano allora molto giovani.

Una possibilità di uscita dalla vita attiva sfruttata da circa 400.000 persone per una spesa annua di 7,5 miliardi di euro.

Beneficiati che hanno trascorso in pensione il doppio o addirittura il triplo del tempo trascorso al lavoro.

Un lusso oggi impensabile che ha scaricato i suoi costi sulle giovani generazioni.

Giovani che da un lato contribuiscono a coprire gli assegni più generosi di chi è in pensione, e che avranno la loro pensione calcolata esclusivamente in base ai contributi effettivamente versati, con situazioni lavorative spesso instabili, precarie o intermittenti, e con assegni futuri molto bassi rispetto a chi oggi è in pensione.

Una decisione di una politica, allora poco lungimirante.

Uno scenario previdenziale per i nostri giovani molto penalizzante, confermato da uno studio dell’OCSE, secondo cui nel 2050 potrebbero esserci più pensionati che lavoratori.

Senza contare un altro svantaggio che grava sui giovani è cioè il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo puro.

Il sistema retributivo è stato in vigore fino alla legge n. 335 del 1995, che ha introdotto il sistema di calcolo contributivo.

Secondo il sistema retributivo la pensione veniva rapportata alla media delle retribuzioni degli ultimi anni lavorativi, un metodo di calcolo della pensione molto più vantaggioso del contributivo attuale.

E così i giovani hanno ricevuto in dono una pesante eredità, ma per fortuna nel dibattito pensionistico si inizia a parlare, doverosamente, di pensione di garanzia per i giovani con l’obiettivo di garantire un trattamento pensionistico futuro adeguato, considerando la possibilità di valorizzare, gratuitamente, i periodi di formazione anche a fini previdenziali.

 

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