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In fuga dal Libano
La fotografia impietosa di un Paese in crisi
Il bilancio dell’emigrazione dal Libano è preoccupante: 215.653 persone in fuga dal Paese precipitato nella “peggiore crisi degli ultimi due secoli”, il 20% dei medici costretti a lavorare all’estero. L’Osservatorio di Crisi dell’Università Americana di Beirut lancia l’allarme. In un’intervista a padre Firas Lutfi il bilancio di un paese in crisi.
 

l’emigrazione dal Libano è stata un fenomeno massiccio fin dall’inizio della guerra civile, nel 1975. Con la rivoluzione del 17 ottobre 2019 c’è stata un’accelerazione e sempre più persone hanno abbandonato il Paese, fino a raggiungere la cifra di 17.720 emigranti nei primi mesi del 2020.

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Durante il 2020, a causa dell’esplosione al porto di Beirut (4 agosto), l’emigrazione si è aggravata ulteriormente. Alla fine dell’anno, circa 65.000 persone in più avevano abbandonato il Paese, anche a causa della crisi economica, della disoccupazione, della fame e della svalutazione della sterlina libanese, tutte conseguenze del tracollo che l’esplosione del porto ha reso visibile.

 

Ma la situazione nel Paese è peggiorata ulteriormente dalla fine del 2020 fino a raggiungere quella che la Banca Mondiale ha definito “la peggiore crisi economica negli ultimi due secoli”. Il tasso di emigrazione dal Libano per l’anno 2021 è stato 4,5 volte superiore a quello precedente. In totale, tra il 2017 e la fine del 2021, 215.653 persone (i casi noti) hanno abbandonato il Paese. Si tratta del 4,5% della popolazione totale.

 

E la fuga dal Libano è anche una fuga di cervelli, come ha dichiarato il Ministero Affari Esteri. Secondo alcune statistiche aggiornate, il 20% dei medici avrebbe abbandonato il Paese, e farmacie e dispensari medici sono messi a dura prova dalla crisi economica, che rende troppo costosi i trattamenti e i medicinali. Sono molti i professionisti di alto livello che, negli scorsi due anni, hanno abbandonato il Paese verso gli Emirati, cercando condizioni di vita migliori e migliori occupazioni.

 

Il centro di ricerca Information International, stanziato a Beirut, ha dichiarato quest’ondata migratoria come la più massiccia negli ultimi cinque anni. E l’Osservatorio di crisi dell’Università Americana di Beirut ha affermato che sarà difficile superare le conseguenze di quest’emigrazione, dato che il Paese sta perdendo giovani e forza lavoro, soprattutto quella specializzata.

 

Una breve storia del Libano

 

La crisi del Libano ha radici profonde che risalgono agli anni ’70 del Novecento, quando le differenti appartenenze religiose e politiche frantumarono il Libano fino a precipitarlo nella guerra civile che durò quindici anni tra il 1975 e il 1990. Dagli anni ’90 in poi, la politica libanese, faziosa e spesso corrotta, sembrava non dover conoscere grandi scossoni, tanto che i protagonisti della guerra civile (Michel Aoun, Samir Geagea, Walid Jumblatt, Rafiq Hariri…, solo per citarne alcuni) hanno tutti ricevuto ruoli importanti anche al termine dei combattimenti. Sensazionale fu anche la riunione dei due movimenti islamisti di Hezbollah e di Amal per motivi di opportunità politica dopo il 1990. L’unione dei due movimenti sciiti seppe guadagnarsi uno stabile consenso fino agli scorsi anni.

 

Gli ultimi mesi del 2019 hanno visto l’impalcatura istituzionale del Libano cominciare a sgretolarsi. L’introduzione di una nuova tassa sul sistema di messaggistica WhatsApp ha provocato la rabbia delle piazze che hanno cominciato a contestare il governo dell’allora premier Sa’ad Hariri, caduto il 17 ottobre del 2019. Le proteste erano rivolte per lo più al tandem maggioritario Hezbollah-Amal, spina dorsale del governo Hariri, capeggiato da Hassan Nasrallah.

 

Nell’ottobre 2019 il Presidente della Repubblica Michel Aoun ha così consegnato a Hassan Diab il compito di formare un nuovo governo in un clima sempre più arroventato dalle proteste di piazza e complicato dalla ingombrante persistenza di Nasrallah nello scacchiere politico. Sotto il governo Diab, il 4 agosto 2020, accade il disastro: più di 2700 tonnellate di nitrato d’ammonio illegalmente stoccate (almeno dal 2013) presso il porto di Beirut esplodono, determinando un evento paragonabile ad un terremoto di magnitudo 3,3. È il fotogramma di un Libano allo sbando.

 

Il governo Diab cade nel settembre 2020, e diventa impossibile, di fronte all’enormità della catastrofe dell’agosto, formare un nuovo governo. Hezbollah ed Amal moltiplicano gli ostruzionismi, per evitare di vedersi coinvolti nelle indagini sulla vicenda del porto, e il Libano precipita per un anno nello stallo istituzionale.

 

Solo nel settembre 2021, Michel Aoun riesce ad incaricare Naijb Miqati di formare un nuovo governo. Ma il clima diviene immediatamente irrespirabile. L’inchiesta sull’esplosione del porto chiama in causa tre esponenti del governo Diab, vicini alla maggioranza sciita, e provoca così le ire di Hezbollah ed Amal. I due partiti indicono una manifestazione per protestare contro quella che, a loro avviso, ha il significato di un’ingerenza indebita della magistratura nella politica. La manifestazione diviene immediatamente una marcia armata e il 14 ottobre 2021 scoppia un conflitto a fuoco in piena Beirut (presso la rotonda Tayyounneh) tra i militanti sciiti e i cristiano-maroniti di Geagea.

 

Lo strapotere di Hezbollah e Amal (filo-iraniani) in Libano suscita le ire dell’Arabia Saudita, con cui si aprono continue vertenze diplomatiche lungo gli ultimi mesi del 2021. È in questo momento che la Banca Mondiale definisce quella del Libano “la peggiore crisi economica degli ultimi due secoli”, calcolando in 90% la perdita di valore della sterlina libanese.

 

Lo scorso 15 maggio si sono tenute le elezioni legislative per la costituzione dell’Assemblea Nazionale, tra scarse speranze: ne abbiamo parlato con il ministro francescano della regione padre Firas Lutfi in un episodio del nostro podcast.

 

Ecco alcune sue dichiarazioni: “La crisi del 2019-2020 ha segnato per il Libano un prima e un poi. L’esplosione del porto del 4 agosto è stata la catastrofe che ha posto l’accento più forte sul sistema di corruzione nella politica libanese. Ancora oggi non ci sono accusati, non ci sono persone condannate rispetto a questa grande tragedia, la più grande della storia del Libano. L’ambiente politico in Libano ostacola la giustizia, al punto che i capi dei partiti stanno scendendo in campo per difendere tutti quelli che sono indagati. Questo è dovuto al tessuto della politica libanese, che divide i politici per appartenenze religiose. Il Libano è quindi un Paese in cui, quando si accusa un esponente di un partito, si attacca l’intero partito, e così i capi politici cominciano a fare ostruzionismo. Anche la cosa più normale del mondo, avere giustizia, diventa così impossibile. La parola ‘trasparenza’ in Libano non esiste. In questo clima, speranze, nel vero senso della parola, non ci sono. È vero, ci sono nuove generazioni che si sono candidate, ma spesso e volentieri queste persone non sono unite, non hanno un programma chiaro e sistematico per portare il Paese verso orizzonti diversi e migliori. In Libano c’è possibilità di vedere la politica come una scintilla che va protetta, come un seme che va fatto crescere, ma bisogna far germinare il senso di appartenenza alla cittadinanza, e non solo ai piccoli gruppi chiusi di paese, di partito o di religioni. Occorre una lealtà completa al Paese, e in questo camminare insieme, costruire insieme. Come direbbe papa Francesco, nello spirito della sinodalità”.

 

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