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NONOSTANTE GUERRA E RECESSIONE ALLE PORTE

UNA POLITICA “EVAPORATA” CI FA VOTARE

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PER UN FINTO SISTEMA BIPOLARE GIÀ FALLITO

E CON UNA PESSIMA LEGGE ELETTORALE.

ECCO PERCHÉ LA VERA PARTITA SI GIOCA IL 26.9
di Enrico Cisnetto

Premessa personale. Ho sempre scritto con grande piacere questa nota settimanale, che ho usato prima di tutto per sistemare i miei pensieri e dare ordine alle mie riflessioni. Confesso, però, che questa volta aprire il file di word per analizzare ciò che ci attende mi comporta fatica e tormento. Il motivo è presto detto: per la prima volta dal 1948 gli italiani sono chiamati a votare i propri rappresentanti in un contesto di guerra, dai tempi incerti e dalle conseguenze terribili, ma ciononostante stiamo assistendo alla peggior campagna elettorale della storia repubblicana – mi rendo conto di aver già usato questa espressione nel passato, ma ogni volta è peggio – premessa per una legislatura che, ancora una volta, non servirà a risolvere gli annosi, e sempre più gravi, problemi strutturali del Paese.

 

Viviamo un momento drammatico in cui gli equilibri planetari sono violentemente messi in discussione. Ci accingiamo ad entrare in una tempesta perfetta che è la sommatoria di una crisi energetica senza precedenti, del ritorno (stabile) dell’inflazione, di una recessione globale simile a quella del 2008, o forse anche peggiore, e che ci farà dolorosamente impoverire. Ma la portata epocale di tutto ciò sfugge, per ignoranza nell’analisi e per povertà assoluta di risposte. E in più affrontiamo il momento più complicato dal secondo dopoguerra con la classe politica peggiore di sempre, fatta di leader usa e getta prigionieri dei social e di gregari dilettanti senza né arte né parte. Con il sistema politico-istituzionale da tempo in default senza che nessuno ci abbia messo mano. Con un capitalismo che si divide tra chi ha successo individuale ma non fa sistema e chi sopravvive solo grazie alla spesa pubblica e all’evasione fiscale. Con una società attraversata dai sentimenti del disincanto e del rancore che sono l’anticamera dell’anti-politica, del populismo e delle illusioni sovraniste.

 

Come ha magistralmente scritto lo psicoanalista Massimo Recalcati sulla Stampa, siamo di fronte alla “evaporazione della politica”, insieme causa ed effetto di una crescente astensione dal voto e matrice della nascita e della morte in tempi sempre più veloci di fenomeni politici fondamentalisti (i migliori che cacciano i peggiori, ma che dopo aver a loro volta fallito vengono cacciati dal “nuovo che avanza”). Certo, è vero quello che sostiene Giuliano Amato, e cioè che oggi tutte le democrazie “sono fragili perché non hanno più quei grandi persuasori di massa che erano i partiti” e dunque la politica “non ha un ruolo guida”. Tutto l’Occidente è contagiato da questa malattia, e ciò spiega il successo, anche presso le nostre opinioni pubbliche, delle cosiddette “democrature”. Ma la patologia italiana va oltre, perché in nessun paese europeo esistono partiti di plastica che abbiano generato politici di cartapesta (felice espressione di Francesco Cundari).

 

Così come va oltre il fisiologico l’intensità dello scontro tra le forze politiche nella contesa elettorale. Come ha notato Massimo Franco, l’eccesso di aggressività – fatto di allarmi sulla tenuta della democrazia, minacce di guerra civile, terrorismo sulle sanzioni alla Russia – non solo infetta i rapporti tra i partiti (compresi quelli alleati), ma trasferisce veleni nei rispettivi elettorati, creando “un serbatoio di parole d’ordine tossiche destinato a inquinare a lungo anche il dopo elezioni”. Lo dimostra l’accoglienza che stanno avendo gli accorati appelli di Guido Crosetto, maître à penser di Giorgia Meloni, a considerare la necessità che subito dopo il voto, quale che sia il risultato, si dovranno unire tutte le forze migliori per salvare il Paese (“e tutte vuol dire tutte”, sottolinea Crosetto): pur trattandosi di un auspicio sacrosanto, già viene bollato (l’ineffabile avvocato Conte è specialista in questo) come inciucio di potere all’insegna del più bieco opportunismo. Con il risultato che i compromessi che inevitabilmente si dovranno fare dopo le elezioni saranno difficili se non impossibili da realizzarsi. O, se si faranno, risulteranno poco credibili e dunque fragili (come dimostra la breve durata del governo Draghi).

 

Per questo non mi preoccupa il 25 settembre, ma il 26. Ciò che accadrà (e non accadrà) dopo un voto che, quale ne sia l’esito, non potrà essere risolutivo. Lo dico ovviamente senza conoscere i risultati e avendo un forte scetticismo verso i sondaggi che ci sono stati fin qui offerti, ma avendo maturato la certezza che manchino i presupposti perché il prossimo Parlamento non solo sia migliore del precedente, ma che ci siano le condizioni politiche perché possa produrre un governo e un programma di legislatura. Vediamo perché.

 

Intanto il voto che esprimeremo tra due settimane sarà il compimento di una crisi che è ormai prossima ai trent’anni e che ha prodotto il declino strutturale dell’Italia. In questi anni non è stata risolta alcuna delle questioni che avevano portato alla fine della Prima Repubblica, a cominciare dalla giustizia, che sono davanti a noi aggravate dal trascorrere del tempo e dall’aggiungersi di nuove problematiche. Inizialmente ci si era illusi che il bipolarismo, forzato dagli elementi maggioritari della legge elettorale (nelle sue varie declinazioni), consegnasse al Paese una sana governabilità. Ma un sistema basato sulla contrapposizione tra “bene e male”, rappresentati dal berlusconismo e dall’anti-berlusconismo, non poteva che generare populismo e ingovernabilità, fino alla crisi estrema del 2011 quando è morta la soi-disant Seconda Repubblica senza che nascesse la Terza. Il fallimento degli esperimenti fatti tra il 2011 e il 2018 ha portato al successo dell’antipolitica e alla nascita di uno sgangherato bipopulismo, crollato miseramente quando si è stati costretti a chiedere aiuto a Draghi.

 

Ora andiamo a elezioni a legislatura non del tutto compiuta e nel pieno di guerra alle porte di casa, per il combinato disposto del desiderio dell’ex banchiere di allontanare da sé l’amaro calice dell’onere di governare e la sciagurata iniziativa di forze come minimo ambigue sia nel condannare Putin per il suo proditorio attacco all’Ucraina, con cui ha tra l’altro tentato di stravolgere gli equilibri continentali e mondiali. Tema, questo, che anziché diventare il cuore del confronto politico, è scomparso dalla campagna elettorale se non per gli effetti che ha sulla bolletta del gas e della luce (problema affrontato peraltro unicamente con la sola ricetta che si conosce, aumentare la spesa pubblica), mentre avrebbe dovuto essere l’elemento discriminante, dividendo gli euro-atlantisti dai sovranisti e dai filo-putiniani. Altro che la vetusta contrapposizione “fascismo-antifascismo” che ci è stata propinata per l’ennesima volta.

 

Se a questo si aggiunge che pur essendo ormai conclamata da tempo la crisi del tutto irreversibile del sistema politico – partiti personali, cartelli elettorali spacciati per coalizioni, Parlamento impotente e dequalificato e ora per di più a ranghi ridotti, presidenzialismo surrettizio, ecc. – la questione non è stata minimamente affrontata, neppure nel suo aspetto più facile (legge ordinaria) e più urgente come le modalità di espressione e conteggio del voto – salvo pentirsi ora quasi tutti di non avere seppellito l’orrido Rosatellum a favore di un proporzionale accompagnato da un severo sbarramento, alla tedesca – si capisce sia perché la sollecitazione al voto stia lasciando indifferenti quando non fortemente arrabbiati i cittadini (non a caso mai così incerti se andare ai seggi, e, andandoci, chi votare).

 

Non è un caso, dunque, che a farla da padroni siano i sondaggi, le cui indicazioni sembrano addirittura diventate il contenuto stesso dell’offerta politica, per cui il Pd sicuro di perdere chiede di far argine alla sicura vincitrice Meloni per evitare che almeno non abbia i due terzi dei seggi e possa cambiare la Costituzione senza colpo ferire. Considero altamente probabile che i numeri che ci vengono propinati da settimane, peraltro niente affatto omogenei salvo sul fatto che a vincere sarà il cosiddetto centro-destra, saranno quelli veri. Anche perché ciò che conta non sono le percentuali complessive dei contendenti, ma l’effettiva distribuzione dei seggi (che per il 37% saranno assegnati dai collegi uninominali e dunque secondo la logica maggioritaria, e il 63% dal voto proporzionale). Ma non serve a nulla divinare quale sarà il responso effettivo delle urne, anzi è distorcente. Quello che importa sapere è che: a) è improprio l’uso delle definizioni di centro-destra e centro-sinistra, vuoi perché a sinistra la coalizione non si è formata e vuoi perché la destra è orfana del centro, e il cartello elettorale è talmente diviso su quasi tutto che è pronta a implodere un minuto dopo la chiusura delle urne; b) è errato continuare a considerare bipolare il sistema politico, visto che in campo i poli sono quattro (5stelle e TerzoPolo oltre ai due già citati); c) è truffaldino evocare il “voto utile”, proprio perché non siamo in un sistema bipolare e perché se l’esito delle elezioni è ancora indefinito – per esempio al Senato ci potrebbe essere una situazione di pareggio o di maggioranza risicata – o comunque destinato a cambiare in tempi brevi, anche i voti alle formazioni minori risulteranno utili, se non addirittura determinanti.

 

Lascio alla prossima puntata di TerzaRepubblica il compito di entrare maggiormente nel merito delle ipotesi di voto, dicendovi fin d’ora che in tutti i casi la partita vera si gioca da lunedì 26. E non perché il voto, di ciascuno e di tutti, non conti, ma perché i partiti – tutti indistintamente, ahimè – si sono ostinati a costringerci ad esprimere le nostre preferenze dentro uno schema di sistema politico e con una legge elettorale che sono falliti da tempo e che non potranno produrre risultati chiari e soluzioni di governo durature.

Ora avete capito perché sono tormentato?
 

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