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IL PAESE NON ESCE DALL’IMPASSE

CON L’ILLUSIONE PRESIDENZIALISTA

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LE RIFORME ISTITUZIONALI CI VOGLIONO

MA CON UN’ASSEMBLEA COSTITUENTE
Siamo dentro ad una gigantesca impasse. Per fattori esogeni: l’incertezza generata dal prolungarsi della guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina che si trascina perché Putin l’ha ormai persa ma non può permettersi di certificare la sconfitta, cosa a fronte della quale nessuno ha uno straccio di disegno su come uscirne; il permanere della crisi energetica che dalla guerra è scaturita, che a sua volta ha innescato una fiammata inflazionistica difficile da domare se non al prezzo di una politica monetaria restrittiva che inevitabilmente contribuisce ad aumentare probabilità, durata e profondità di una fase di recessione. E per fattori endogeni: il perdurare della fragilità del sistema politico, e di conseguenza istituzionale, sulla quale l’effetto lenitivo delle elezioni – dalle urne esce una maggioranza definita e si archivia la surroga dei tecnici – si è rivelato, come ampiamente preannunciato in questa sede, una mera illusione ottica; la mancata modernizzazione della infrastruttura-paese, dovuta ad una macchina burocratico-amministrativa elefantiaca ed inefficiente e ad una diffusa cultura della mediocrità; l’ingrigirsi di un capitalismo sempre più privo di grandi progettualità e per buona parte ancora troppo dipendente dalla spesa pubblica corrente; l’immalinconirsi di una società che vive un perenne stato di modesta latenza (definizione Censis) e che non trova le energie morali e non ha i fermenti culturali per scuotersi, preferendo populisticamente consumare le classi dirigenti su cui scaricare ogni responsabilità. Al cospetto di tutti questi fattori misuriamo la nostra impotenza: per gli esogeni, quella di chi non è in grado di esercitare alcuna influenza reale; per gli endogeni, quella di chi non possiede né la capacità di analisi né di avere un disegno di società e di futuro.

 

Così si prospetta il 2023 ai miei occhi. E ho l’impressione che non molto diversamente appaia agli occhi di Giorgia Meloni. Sulla quale, in più, grava il peso del noviziato – accentuato dal fortissimo scollamento che è costretta a vivere tra la gaia dimensione delle promesse elettorali, tanto più se figlie di una cultura massimalista, e la dura realtà dell’attività di governo – e quello della contraddizione tra le aspettative del mondo identitario da cui proviene, che non può palesemente tradire, e le attese delle ben più vaste componenti sociali che l’hanno massicciamente votata, una sorta di interclassismo neo-democristiano, alle quali deve dimostrare di non essere l’ennesima meteora cui si sono rivolti. Forse è per l’ansia da prestazione cui tutto questo le genera che la presidente del Consiglio sembra intenzionata ad alzare l’asticella dei traguardi del suo governo: le grandi riforme istituzionali, e in particolare il presidenzialismo. Anzi, tanto più la quotidianità le getta tra i piedi ostacoli – ultimo la questione delle accise sulla benzina, ma a far di conto sono tanti gli inciampi da cui ha dovuto districarsi in soli 83 giorni dal giuramento – tanto maggiore è in lei il desiderio di “andare oltre”. Vive poi con fastidio la spinta della Lega verso un’altra riforma strutturale, quella dell’autonomia regionale, e questo a maggior ragione la induce ad evocare quella del presidenzialismo.

 

Ora, delle due l’una: o si tratta di una pura operazione di comunicazione, destinata a rimanere tale, magari per fare in modo che anche la riforma federalista già predisposta da Calderoli faccia la stessa fine, oppure Meloni è davvero intenzionata a battere quella strada. In entrambi i casi, commetterebbe un grave errore di metodo e di merito: di metodo perché butterebbe via, come fece Renzi, l’ennesima occasione di affrontare le riforme istituzionali; di merito perché, se riuscisse, farebbe fare all’Italia la riforma sbagliata. Sia chiaro, il Paese ha assolutamente bisogno sia di ripensare il suo sistema politico sia di ridisegnare i suoi assetti istituzionali: di fronte allo sgretolamento del sistema politico e dei partiti, di fronte alle lesioni sempre più evidenti e pericolose inferte alla nostra architettura istituzionale, è urgente mettere mano alla Costituzione. Ma proprio per questo, come predico da anni, è necessario affrontare l’intera questione in modo organico, e l’unico modo serio per farlo è metterla nelle mani di uno strumento apposito, sia esso un’Assemblea o una Commissione Costituente. Primo perché a farsene carico non può essere né il Governo, che già fatica a tener testa ai problemi congiunturali, né il Parlamento, negli anni depauperato in qualità e ora anche in quantità. Secondo perché la riforma, se vuole essere armoniosa deve essere organica, e quindi tutti i problemi vanno affrontati contemporaneamente. Di spizzichi e bocconi ne abbiamo già avuti – vedi il titolo V della Costituzione – e hanno fatto abbastanza danni per indurre a non ripetere l’errore.

 

Ecco, dunque, il giusto modo per Meloni di alzare l’asticella: promuovere una legge costituzionale che convochi un’Assemblea o istituisca una Commissione – in entrambi i casi di 75 membri non parlamentari né membri del governo in carica, eletti con il sistema proporzionale puro in liste da presentare in un collegio unico nazionale, cui se ne aggiungano 25 indicati dal Presidente della Repubblica – alla quale viene delegata la revisione della Costituzione avendo un anno di tempo (non derogabile) per portare a termine il compito, lavorando in parallelo a Governo e Parlamento, ma senza alcuna interferenza reciproca. Lì si discuterà se il Paese ha bisogno di un federalismo regionale o se, come io penso, ha invece necessità di riportare le competenze sanitarie e di mantenere quelle scolastiche in sede nazionale, archiviando l’esperienza delle Regioni e semplificando il decentramento amministrativo (vedi TerzaRepubblica n.45 del 17.12.22). Lì si discuterà se è il presidenzialismo – e quale tra l’elezione diretta del Capo dello Stato o quella del Presidente del Consiglio, quello pieno o il sistema semipresidenziale – che può assicurare maggiore governabilità, o seppure, come io penso, imboccare quella strada avrebbe lo stesso effetto illusorio che trent’anni fa ebbe il grande afflato verso il maggioritario, consacrato dal referendum Segni. Si faccia una battaglia delle idee, si coinvolgano gli italiani, ma non si usino le riforme che toccano le regole del gioco e le istituzioni che lo presiedono per sistemare le questioni politiche contingenti o, peggio, per cercare vie di fuga.

 

L’Italia ha un disperato bisogno, insieme, di stabilità politica e di governabilità. Ma mentre la seconda assicura anche la prima, non è così viceversa. Su questo hanno speso parole definitive Giorgio La Malfa e Sabino Cassese. Il primo ha indicato un paio di “piccole ma rilevanti” modifiche costituzionali con le quali è possibile rafforzare l’esecutivo: attribuire al presidente del Consiglio il potere di nomina e revoca dei ministri; introdurre la “sfiducia costruttiva” come in Germania, in modo che le Camere possano mandare a casa un governo solo quando ce n’è già un altro pronto, pena lo scioglimento del Parlamento. Il secondo ha aggiunto l’idea di fissare un tempo di durata dei governi, così come è previsto per le Camere (5 anni), per la presidenza della Repubblica (7 anni) e per i membri della Corte Costituzionale (9 anni), ferma restando la scadenza anticipata (ma sarebbe mitigata dalla “sfiducia costruttiva”). Viceversa, l’elezione popolare del presidente del Consiglio, mentre in termini di stabilità aggiungerebbe poco, avrebbe come grave controindicazione la nascita di conflitti che si genererebbero con il presidente della Repubblica. Infatti, vista la rappresentatività indiretta dovuta alla sua elezione per via parlamentare, si altererebbe l’equilibrio costituzionale esistente. Se invece si optasse per l’elezione diretta del Capo dello Stato, ad essere messo in discussione sarebbe il suo ruolo di garanzia, che specie nel quadro di una fragilità politica come la nostra in questi anni si è dimostrato indispensabile (se talvolta i presidenti che si sono succeduti possono essere apparsi arbitri non del tutto imparziali, figuratevi cosa sarebbe successo e cosa succederebbe se si fosse in un regime di presidenzialismo da investitura popolare…).

 

D’altra parte, se, come dice Cassese, quello che chiamiamo presidenzialismo deve servire a dare stabilità ai governi, fanno più questo tipo di interventi che non l’elezione diretta, su cui si scaricherebbero tutte le contraddizioni che in questi decenni hanno reso instabile la vita dei governi. La stabilità è un dato politico, non tecnico, e non si assicura per legge. Se poi, dietro questa suggestione si nasconde quella del “uomo forte”, per allontanarla non c’è bisogno di evocare lesioni alla democrazia, basta scorrere l’elenco nelle cui mani gli italiani hanno via via provato a mettersi – considerato che da Berlusconi in poi è stata praticata da tutti la forzatura costituzionale di indicare il nome del candidato premier, e in molti casi addirittura di scriverlo nei simboli elettorali, facendo credere agli elettori che avrebbero nominato il premier – per dedurne che Dio ci scampi e liberi.

 

Se poi, come in molti sospettano, dietro l’evocazione del presidenzialismo c’è solo il calcolo politico di rafforzare l’identità di destra e nello stesso tempo di mettere in difficoltà la sinistra, più di quanto già ci si sia messa da sola, anche qui Meloni commetterebbe due errori capitali. Il primo è semplice da capire: la presidente del Consiglio di tutto ha bisogno meno che di accentuare i suoi tratti destrorsi e populisti, se vuole durare. E pare averlo bene a mente, per esempio quando guarda con attenzione alle compatibilità di bilancio, anche a costo di rimangiarsi le promesse elettorali. Dunque, perché cambiare strada dopo aver imboccato quella della sua trasformazione da leader sovranista di destra a leader conservatore di centro-destra? Il secondo errore sarebbe quello di credere che accentuare le difficoltà esistenziali del Pd farebbe il suo gioco. No, finirebbe per spingerlo definitivamente nelle braccia di Conte, mortificando così ogni possibile convergenza su questioni specifiche, a cominciare da quelle relative alla giustizia. E avere un’opposizione del genere non farebbe affatto bene alla salute del governo Meloni.

 

Il Paese ha bisogno di uscire dall’impasse. È un’impresa difficile, ma che diventa impossibile se, per un motivo o per l’altro, si tornasse a lasciare briglia sciolta al populismo nazionalista. A cominciare dall’illusione di scorciatoie costituzionali.

 

 

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