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Il Regio Decreto 7 giugno 1943 n. 651: l’ultimo colpo di coda fascista all’ordinamento nobiliare.

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Dr. Gualfredo de’Lincei

L’ultima legge sull’Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano si può descrivere con tre semplici aggettivi: liberticida, femminicida e regicida.

 

In ambito nobiliare è una delle peggiori leggi che siano mai state scritte, concepita e promulgata al culmine di una guerra senza precedenti, da un regime ormai agonizzante. Un mese più tardi, il 25 Luglio, fu votato l’ordine del giorno Grandi, che destituì Mussolini e con lui il fascismo.

 

La discrezionalità del Regime, l’esproprio alle donne e la limitazione al Re.

 

Con il nuovo Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano, che in parte riprendeva il precedente R.D. fascista del 23 luglio 1926 n.° 1489, il Regime puntava a ottenere il controllo e il sostegno della nobiltà italiana attraverso tre punti:

Il primo era il timore provocato dalla piena discrezionalità sulla privazione, che il governo aveva imposto con l’art. 33: «… Possono esserne privati per azioni nocive agli interessi della Nazione, per infedeltà verso il Re Imperatore, la Patria ed il Regime». Comprensibile l’infedeltà verso il Re, figura di unità nazionale e di garanzia, ma nei confronti di un regime politico è qualcosa di profondamente angosciante. La seconda parte è la tomba del diritto più elementare: «…Anche se tali fatti non costituiscano reati previsti dal Codice penale o da leggi speciali, e non diano luogo a condanne che importino la perdita delle distinzioni nobiliari». In barba alla patria magistratura, il Duce del Fascismo, Capo del Governo, avrebbe potuto procedere, di sua iniziativa, alla cancellazione di un titolo, per la sola “azione” (e non “reato”) ritenuta sgradita al regime stesso.

Il secondo fu il tentativo disperato di recuperare quel poco consenso rimastogli tra l’aristocrazia. Il sostegno si traduceva in voti e, poiché il suffragio universale arriverà solo nel 1945, si doveva cercarlo tra i cittadini maschi. Si pensò bene, così, di espropriare le donne dei titoli ai quali erano legittimamente entrate in possesso. Con l’art. 46 venivano annullate tutte le Regie Patenti di convalida emesse a loro favore prima del 1926. Il titolo espropriato passava, quindi, alla maschia discendenza del ramo agnato. La donna privata del suo diritto naturale di rappresentare e trasmettere il sangue della sua famiglia, poteva, a sorta d’indennizzo, supplicare, con relativi costi, un titolo generico per uno solo dei suoi figli, ma l’offesa era ormai lanciata. Con l’art. 40 veniva disposta l’esclusiva successione maschile di tutti i titoli, anche quelli concessi da altri sovrani.

Il Fascismo, si sa, non ebbe mai grande attenzione al ruolo femminile nella società e questo si capiva fin dalla prima riforma che affrontò in materia nobiliare. Bisogna però anche dire che, a differenza dell’ultima Legge, il RD n° 1498 del 1926, prevedeva, in determinati casi, la discendenza femminile, quando mancante quella maschile e il rispetto delle estensioni previste nelle disposizioni di concessione.

Quello che più allibisce non è tanto una legge delirante figlia di un regime, ma la constatazione che nessuna donna si levò a difendere i propri interessi e quello dei propri figli.

 

Il terzo fattore riguardava l’indebolimento dell’autonomia del Re, che fu sempre una figura malvista dal Regime e considerato un ostacolo alla sua piena affermazione e, nel 1943, divenne anche la minaccia più grande alla dittatura. L’art. 4 dell’Ordinamento Nobiliare, disponeva la controfirma da parte del Duce del fascismo, Capo del Governo, di tutti i decreti Reali contenenti provvedimenti nobiliari. L’aristocrazia ora doveva inchinarsi al Littorio.

 

Una legge in contrasto con lo Statuto Albertino

 

Per evitare infiniti ricorsi inserirono gli art. 74 e 2 del RD 1943, quest’ultimo derivato in parte dall’art. 1 del R.D. del 1926. Entrambi andavano a modificare l’ordine delle antiche successioni riconducendole alle norme vigenti. Si buttavano alle ortiche le basi del diritto su cui poggiava l’antica nobiltà di stampo feudale, formatasi quando, l’aristocrazia, era il sistema che regolava regni e repubbliche.

 

Le norme Fasciste sarebbero state abrogate una volta caduta la dittatura. L’incompatibilità più grande era proprio rappresentata dall’art. 79 dello Statuto Albertino: «I titoli di nobiltà sono mantenuti a coloro, che vi hanno diritto. Il Re può conferirne dei nuovi». Erano dunque “mantenuti” e non soggetti a un atto amministrativo discrezionale che ne modificasse il valore o la sua naturale successione. Al contrario l’art 2 del RD del 1943 aggiungeva le parole: «in conformità delle norme vigenti». Una modifica sostanziale che collideva con quanto promesso alla proclamazione del Regno d’Italia. Non dimentichiamo, infatti, che, la tutela e il mantenimento dei diritti preesistenti, non erano una magnanimità di Vittorio Emanuele II, ma fu un atto dovuto e necessario a ottenere l’appoggio dell’aristocrazia, e quindi delle gerarchie militari preunitarie, al nascente Regno d’Italia che, in caso contrario, forse, non sarebbe mai nato.

 

Mille anni fa, esattamente il 28 maggio 1037, Corrado II il Salico del S.R.I., promulgava l’Edictum de beneficiis regni Italici o Constitutio de feudis , con cui eliminò la discrezionalità imperiale e dei feudi maggiori sui feudi minori, trasformandoli in veri possessi quasi inespropriabili ed ereditabili anche da figli minori o donne. Certo le leggi feudali non erano più le stesse dopo Napoleone, ma l’esempio ci ricorda come il progresso, a volte, diventi regresso.

 

Abrogazioni delle Leggi e la successione oggi

 

A mettere la parola fine ai rocamboleschi tentativi di riesumazioni delle leggi nobiliari in epoca repubblicana ci ha pensato la sentenza della Corte Costituzionale n° 101 del 1967, il D.L. 25 giugno 2008, n° 112, convertito con modificazione dalla L. 6 agosto 2008 n°133 e il D.P.R. 13 dicembre 2010, n° 248. Tutte abrogate … Game over.

 

Oggi, il diritto nobiliare è soggetto al capriccio di chiunque e l’unico vero anello di congiunzione, tra un aspetto residuo della nobiltà e la Repubblica Italiana, è rappresentato dal diritto alla cognomizzazione del predicato, stabilito nella XIV disposizione transitoria, alla quale si applicano le medesime norme vigenti che regolano il diritto al nome.

 

I titoli nobiliari possono essere usati in forma privata, come patrimonio storico famigliare, privi di valore legale e come tali filologicamente riconducibili alle norme contenute nei riconoscimenti stessi o agli usi e consuetudini tradizionali, utilizzati nella regione storica della famiglia concessionaria. Così peraltro disponeva anche l’art. 38 del Regio decreto 314 del 27 luglio 1896, mentre l’art. 37, stabiliva che i titoli nobiliari, guarenti dall’art. 79 dello Statuto fondamentale del regno, si dovessero riconoscere nelle forme e colle condizioni della originaria concessione.

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