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LA MELONOMICS È UN PAESE CHE NON C’È

di Domenico Bilotti

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Appare francamente prescindibile un commento alla visita di Giorgia Meloni all’happening riminese della CGIL. Ne esce, anzi, per certi versi non tanto rafforzata la sua leadership (ambiente troppo connotato per farlo diventare volano di nuovo consenso), quanto sconfessato il compatibilismo che sta interessando la segretaria Landini. Si dirà: che c’entra, poi, col leader che in FIOM conquistava le prime serate col golfino e la maglietta interna (un look, peraltro, non troppo diverso dall’allora rivale Marchionne)? La verità è che anche quel Landini stava spoliticizzando il conflitto sociale, perché il grosso dei suoi interventi, dietro rivendicazioni apparentemente terrigne ed economiche, ruotava in fondo intorno a parole d’ordine estremamente fungibili: lessico salariale, vulgata oppositiva, incertezza sulle linee strategiche. È invece in principio da accogliere l’idea per cui il sindacato numericamente più cospicuo – anche se assai meno rappresentativo di un tempo – si confronti con un presidente del Consiglio: questi (o questa) ha in fondo ostentato, ma con una certa schiettezza e un cipiglio non indifferente, ciò che è il suo percorso politico. Quale percorso politico ha invece espresso il confederalismo all’italiana?

Opporsi sui temi sociali alle politiche del governo Meloni non potrà rivolgersi alle affermazioni sentite in quel di Rimini: è più opportuno concentrarsi su ciò che il governo sta facendo, per capire se funzioni o non funzioni. Le indicazioni invero non sono buone. Fratelli d’Italia, le rare volte in cui cercava di presentare a un elettorato esterno un pedigree terzo e repubblicano, si è sempre rifatto alla radicata tradizione della destra sociale. Una destra fondamentalmente popolare, partita effettivamente da circoli di borgata (ma anche da ben più forti feudi nell’alta borghesia), che non ha mai negato al proprio profilo ideologico misure di inclusione della povertà, anche quando dietro un ormai irriconoscibile paternalismo dei valori. Questo “seme” valutativo è completamente sparito. Sul piano macroeconomico, è complesso stabilire una differenza qualificante tra il governo Meloni e quello Draghi: sembra, al limite, un Draghi e perdipiù da freno tirato. Che non vuole accedere alla pianificazione dei fondi europei, che su di essi e sulle condizioni di ingaggio ha da ridire, ma senza parole distinguibili, perciò producendo solo l’effetto, se non del pasticcio, almeno della dilazione, della perdita e del ritardo. Meno programmazione, infine, sugli interventi strutturali, e scarsa propensione a mettere mano ai provvedimenti attuativi di riforme già iniziate e condivise. Boom di leggi delega, come sul fisco: un regalo alla lega di Salvini. Fratelli d’Italia ha un debito con la Lega, che voglia ammetterlo o no. Il tridente del centrodestra è nato quando il primo partito era quello di Salvini: una macchina ammazzaregionali, che riusciva a vincere competizioni locali un tempo mambassa del centrosinistra. Se cominci ad aggregare gli enti locali, quando avviene il travaso di voti tra i partiti, hai un tesoretto che crea piccole roccaforti anche nei collegi del voto nazionale. E così è stato. La riforma fiscale, però, ricorda più alcuni strafalcioni di Trump che il costituzionalismo economico di Miglio – l’originario ideologo della Lega. È proposta come legge del lavoro e per i lavoratori, fa interessi di patrimoni che i lavoratori non avranno mai. Anche nella politica legislativa il presidente Meloni rischia di ibridare le componenti meno riuscite della sua non amalgamatissima compagine governativa: unisce il patrimonio securitario della vecchia destra sociale a tentazioni elettoralistiche e xenofobe, oltre che a un generale disprezzo per la povertà visibile. Quella dei reietti, degli intralci al mercato, quella dei non proprietari – bersaglio, appena ieri l’altro, dei falchi di Forza Italia.

Una coalizione che dal 1994 è sempre stata tra il 40 e il 46% dell’elettorato oggi deve interpretare i bisogni compositi di un Paese molto più sofferente e problematico di allora, ma lo fa con la parte di risulta delle ricette di un tempo. Le mixa, le combina, tenta di ordinarle a sistema. Il tutto zoppica vistosamente e una linea di politica economica nemmeno esiste, se non una qualche apertura da outsider del bilateralismo (con India e, peggio, Arabia Saudita). Basterà? La condizione presente del popolo italiano urla un “no” mal sentito ancora dall’opposizione e del tutto inascoltato dal governo.

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