SPIRA OVUNQUE UN VENTO DI DESTRA
(È QUELLO DI SINISTRA CHE HA SMESSO)
MA SENZA IL PRAGMATISMO ALLA VISCO
DURERÀ POCO, IN ITALIA E IN EUROPA
di Enrico Cisnetto
Sull’Italia e sull’Europa spira un vento di destra. A guardare l’esito delle nostre amministrative e di quelle spagnole – che hanno causato la caduta del governo e la fine della legislatura – così come il risultato delle politiche in Grecia e delle presidenziali in Turchia, pare non ci siano dubbi. Se poi in Spagna Sanchez dovesse perdere le elezioni anticipate, il Portogallo rimarrebbe l’unico paese europeo a guida esclusivamente socialista, visto che in Germania la Spd governa, peraltro tra mille difficoltà, in coalizione con Verdi e Liberali. E a Bruxelles l’asse tra popolari e socialisti che ha espresso la cosiddetta “maggioranza Ursula” potrebbe andare in soffitta: Manfred Weber, presidente del gruppo del PPE, sta cercando un accordo con i Conservatori Europei di Giorgia Meloni, anche se una cospicua parte dei popolari sembra essere contraria.
Evidentemente, dopo il Covid e con la guerra scatenata da Putin a un passo dal cuore del Vecchio Continente che ci ha procurato una crisi energetica come non accadeva dagli anni Settanta e una fiammata inflazionistica cui non eravamo più abituati da decenni, i cittadini dell’area del mondo che ha costruito il sistema sociale più protettivo sembrano chiedere alle loro classi politiche certezze senza fronzoli, manifestando esigenze che i partiti della sinistra, in tutte le sue articolazioni, non sono in grado di corrispondere. Per questo, più che spirare un vento di destra, a me pare abbia smesso di spirare – tra stanchezze, delusioni e nuove paure – il vento progressista. Anche perché, a ben vedere, sia a livello di singoli Stati che a Bruxelles, sembrano prevalere le destre più moderate o comunque saldamente atlantiste, a danno di quelle più estremiste o con posizioni ambigue rispetto a Putin e la sua folle politica di aggressione anti-occidentale (leggi il Rassemblement National guidato da Jean-Marie Le Pen).
In realtà, le (poche) risposte fin qui pervenute alle ansie degli europei da entrambi i fronti hanno avuto una matrice comune: il populismo. Solo che in questo frangente storico, il populismo declinato a destra sembra essere più efficace, in termini di raccolta del consenso, di quello di sinistra, che a torto o a ragione viene percepito come inutilmente protestatario. Ma è evidente che anche le parole d’ordine delle destre, a cominciare dal sovranismo, corrono il rischio di evaporare nel confronto con la dura realtà dei problemi veri e complessi. Questo, per esempio, è il pensiero che mi è salito alla mente mercoledì 31 maggio mentre ascoltavo la relazione annuale – la sua ultima, dato che lascerà in autunno – del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Pur nell’approccio didascalico e nella morbidezza dei toni, Visco non ha mancato di mandare messaggi inequivocabili al governo. Per esempio, sì al salario minimo, che come noto non è cosa che piaccia a Giorgia Meloni. Per esempio, sì ai migranti, intesi però come risorsa lavorativa, visto che perderemo ulteriormente popolazione e che aumenterà il fabbisogno sia di mano d’opera che di lavoratori e tecnici specializzati. E pur avendo fatto capire chiaramente che occorrerebbe un flusso migratorio selezionato ai fini dell’inserimento professionale e sociale, si sa quanto il tema sia comunque urticante per il centro-destra. Per esempio, no alla flat tax, che tanto piace alla Lega. O ancora esortazioni precise: sottoscrivete il Mes; sbrigatevi a realizzare i progetti infrastrutturali e le riforme strategiche indicate nel Pnrr; fate molta attenzione al debito pubblico.
Tuttavia, sbaglierebbe chi attribuisse alle parole del governatore di Bankitalia il valore di un attacco al governo Meloni o chi in tutti i casi volesse etichettarle come una calata di cupo pessimismo su un paese che già soffre di una non lieve forma di depressione. Nel primo caso l’errore è duplice. Lo è di chi si è offeso pensando che il governatore abbia voluto togliersi dei sassolini dalle scarpe nei confronti di una classe dirigente che, probabilmente, gli è culturalmente lontana. A parte che non è da lui, ma pensare che Visco intendesse fare il “controcanto” alla Meloni o che addirittura abbia finito per “surrogare” un’opposizione che non esiste (uso termini letti sui giornali di centro-destra), significa non aver colto nelle parole del governatore un senso di moderazione e di equilibrio che, al limite, potrebbe persino essere considerato eccessivo (ricordo molte relazioni del 31 maggio ben più fastidiose…). Ma lo è, in errore, anche chi, al contrario, ha subito voluto mettere in relazione l’irritazione verso la Banca d’Italia con quella, ben più evidente, mostrata in questi giorni sulla questione del Pnrr nei confronti della Corte dei Conti – oggetto di uno scontro istituzionale che andava in tutti i casi evitato, tanto più che esistono ragioni dall’una come dall’altra parte – per poi evocare il rischio che una tagliola anti-democratica cada sulle istituzioni di controllo. Non esageriamo: i moniti è un diritto esprimerli e un dovere ascoltarli, ma non vanno trasformati né in una clava né in un alibi dietro cui nascondere le proprie manchevolezze. Povero è quel governo che si sente minacciato – è segno di scarsa autorevolezza – e povera è quella opposizione cui non rimane altro che evocare complotti autoritari, perché è garanzia di sicuro fallimento politico.
Quanto al dualismo pessimismo-ottimismo, a me pare che il governatore sia stato realista sia nell’analizzare come stanno le cose, e sia nel mostrarsi fiducioso riguardo al futuro. Difficile dargli torto quando ha osservato che l’Italia, tutto sommato, abbia mostrato una capacità di resistenza, resilienza e reazione superiore alle aspettative nell’attraversare una fase storica che tra le doppie crisi finanziarie dal 2008 in poi, il Covid, la guerra russo-ucraina, la crisi energetica e l’inflazione, è stata e in parte continua ad essere, a dir poco drammatica. Giusto ricordare la straordinaria e prolungata vitalità del nostro export, opportuno notare come sia stata rapida ed efficace l’azione per diversificare l’approvvigionamento di gas rispetto alla dipendenza da quello russo e degli sforzi che si stanno facendo per migliorare il mix del nostro portafoglio energetico, sia nel senso di garantire la nostra sicurezza e indipendenza, sia per procedere nella direzione della tutela ambientale. Bene aver sottolineato come sia finalmente cresciuto il flusso degli investimenti, seppure con il supporto di una cospicua fetta di finanza pubblica, e averlo messo in relazione al migliorato clima di libertà di cui godono le imprese, fattori grazie ai quali il tasso di sviluppo è, almeno momentaneamente, tornato ad allinearsi alla media Ue, e anche qualcosa di più.
Naturalmente, questo patrimonio di fiducia che Visco ha voluto consegnarci resta subordinato al fatto che si realizzino, e bene, le tante cose che restano da fare. In particolare, che si aggrediscano le “debolezze che ancora affliggono la nostra economia” – sono le sue parole – che vanno dalla competitività e produttività del lavoro alle caratteristiche peculiari del nostro capitalismo, dal mercato del lavoro che penalizza donne e giovani agli scarsi progressi in campo tecnologico, dalla bassa qualità della pubblica amministrazione all’evasione fiscale. E qui casca l’asino. Perché per quanto l’esecutivo si sforzi di apparire rassicurante, fatica ancora ad imporre una sua agenda di governo, finendo per passare da un’emergenza all’altra, e a svolgere in Europa una convincente azione sia di tutela degli interessi nazionali che di rafforzamento delle istituzioni comunitarie nell’ottica di una maggiore integrazione.
È sperabile che a palazzo Chigi non caschino nella tentazione di dare del bolscevico a Visco, e analizzino invece con l’attenzione che merita gli stimoli che ha voluto lasciare come sua eredità (si veda la War Room di giovedì 1 giugno con Marcello Messori, Marco Onado e Nicola Rossi). Allo stesso modo è auspicabile che altrettanto facciano a Francoforte nel palazzo della Bce e a Bruxelles negli uffici della Commissione Europea. Perchè i messaggi mandati da Visco all’eurosistema nel suo insieme sono stati non meno importanti di quelli indirizzati ai palazzi romani. Il primo è sotto forma di autocritica: sull’inflazione le banche centrali non ci hanno capito niente. Tradotto per la signora Lagarde: siccome la natura di questa inflazione è peculiare, essa non si può combattere solo con gli strumenti tipici della politica monetaria, e comunque l’utilizzo della leva dei tassi d’interesse deve tener conto anche della non meno primaria esigenza di evitare effetti recessivi. D’altra parte, Visco l’aveva già detto mesi fa: “la politica monetaria resti su binario equilibrato”. All’Europa il suggerimento è di creare “debito comunitario”, che serve da un lato a sgravare almeno un po’ i debiti pubblici nazionali senza frenare la crescita, e dall’altro a rimettere in moto il processo d’integrazione politico-istituzionale della Ue.
Tornando alla politica, a ben vedere la “predica utile” di Visco – che s’inserisce nel solco di quelle che da Baffi in poi si sono susseguite – rappresenta un potente antidoto nei confronti del populismo, di destra e di sinistra, che ancora scorre nelle vene italiane ed europee. Usarlo è l’unico modo per vincere le sfide che il momento storico ci pone dinnanzi. Le classi dirigenti, in Italia e in Europa, ne siano consapevoli, altrimenti in poco tempo l’unico vento che continuerà a spirare sarà quello, già forte ora, dell’astensionismo. L’unico che la democrazia a lungo andare non tollera.