Gli stemmi di Cittadinanza, la Distinta civiltà e i venditori di fumo
di Gualfredo de’Lincei
Le armi di Cittadinanza appartennero a quelle famiglie che ebbero accesso alle cariche pubbliche della Città. Fu una distinzione sociale con precisi diritti politici, che in alcuni Stati preunitari veniva collocata nel primo grado della nobiltà. Una chimera, insomma, che mutava il suo aspetto in base alle circostanze. Nel 1908 in Rivista Araldica (pp. 12-16), Alberto di Montenuovo scriveva: “È innegabile che gli uomini d’arme, ossia i fondatori delle case veramente nobili, furono i primi ad ornare i loro scudi con quegli emblemi che in seguito divennero ereditari e servirono a distinguer le famiglie: ma non è men vero che più tardi sorse la nobiltà cittadinesca e di toga la quale, in quanto diventava un fattore sociale e politico d’un determinato assetto, assumeva le prerogative della nobiltà di spada”.
Fino alla Rivoluzione francese era necessario sottoporsi a un processo con prove documentali e testimonianze: ” … ed esaminati i test sull’istanza di Cittadinanza, a suo tempo e luogo, dichiarare il detto richiedente abile e capace di ottenere uffici … “. Si doveva dimostrare un certo tenore di vita, aver ricoperto uffici uliti del governo cittadino e non avere svolto mestieri servili o degradanti per un certo numero di generazioni: “So anche, che tanto il detto S. …, quanto suo figlio il S. …, hanno sempre tenuto casa aperta in questa Città …, habitando in quella con la propria famiglia, come fanno li veri Cittadini, e questa è cosa pubblica e notoria“. La Cittadinanza dava accesso alle cariche pubbliche, a determinate investiture e, a seconda dei luoghi, poteva abilitare al Senato cittadino.
Contrariamente a quanto si crede, la Rivoluzione francese non retrocesse ma bensì promosse tutti, o quasi, a “Cittadini”, aprendo le porte della politica a gran parte della popolazione che fino a quel momento ne era rimasta esclusa. In questo periodo rivoluzionario, spiega la storica Annalisa Furia, la Cittadinanza era intesa come un titolo di chi aveva diritto alla formazione e al mantenimento della legge, con una natura diversa e separata da quella dell’individuo. Il dibattito rivoluzionario su chi ne avesse diritto fu particolarmente vivo e partecipato. I redattori fissarono tre punti fondamentali per il “droit de citoyen”: il primo riguardava l’essere libero, quindi autonomo nel concetto civis e servus del diritto romano; il secondo era la nazionalità francese e il terzo si riferiva ai doveri militari, e civili assolti tramite il versamento delle imposte generate dal possesso di beni o imprese. Naturalmente non mancarono ampi dibattiti sul minimo contributivo, l’alfabetizzazione e altri sbarramenti, che erano in contrasto con quel principio di uguaglianza che stava facendosi breccia in una società ancora fondamentalmente feudale e divisa in ceti.
Con i moti rivoluzionari del 1848 e l’unità d’Italia venne approvato lo Statuto Fondamentale del Regno che garantiva pari diritti a tutti i cittadini. All’art. 24, infatti, si leggeva: “Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari”. Di fatto, veniva meno la necessità di riconoscere la Cittadinanza come precondizione a ricoprire determinati ruoli pubblici, lasciando privo di tutela un ricchissimo patrimonio araldico testimone di tanti secoli di travagliata politica locale. Stemmi cittadineschi che, al pari di quelli gentilizi, dovevano essere preservati a ricordo della loro storica “Distinta civiltà” o, a detta del Montenuovo, della loro “Nobiltà civica”.
Con il regio decreto del 5 luglio 1896, n.º 314, art. 55, venne stabilito che: “Per le famiglie di cittadinanza occorrerà la prova di un possesso pubblico e pacifico, almeno sessantennario, unito ad una distinta civiltà“. Interessante notare che né l’art. 55, né il successivo art. 71, definirono queste famiglie come “borghesi” o “non nobili”, collocandole, di fatto, in un lembo indeterminato dell’aristocrazia cittadina.
Il Fascismo, che in materia araldica fu un livoroso analfabeta, interferì nella stesura del regio decreto del 21 gennaio 1929, n. 61, dove all’art. 38 veniva disposto: “È ammesso il riconoscimento, mediante decreto del Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato, di stemmi di cittadinanza a favore di famiglie non nobili ma di distinta civiltà, quando ne sia dimostrato il pubblico e pacifico possesso per un periodo di tempo non inferiore a 150 anni”. Questo taglio netto tra cittadinanza e nobiltà, non sempre in linea alle antiche consuetudini preunitarie, poteva essere per un Fascismo di stampo socialista rivoluzionario un modo per frenare percorsi nobilitanti fuori dal controllo diretto del governo. Con la seconda e vergognosa riforma nobiliare disposta dal R.D. del 7 giugno 1943 n. 651, art. 30, gli anni venivano diminuiti a 100. Oggi, tutti questi regi decreti sono stati abrogati dal D.P.R. 13 dic. 2010 n. 248, dal D.LGS 13 dic. 2010 n. 212 e dalla L. 6 agosto 2008 n. 133.
Alcuni potrebbero essere indotti a credere che la creazione e la pubblicazione di un emblema araldico, trascorsi i decenni necessari, possa trasformarsi automaticamente in uno stemma di Cittadinanza. In realtà, una qualunque iniziativa editoriale privata dovrebbe fare i conti con l’impossibilità di poter riconoscere ex lege la “Distinta civiltà”, vero spartiacque tra un’arma familiare autoreferenziale e una, appunto, di Cittadinanza. Per questo bisognerebbe riflettere bene prima di mettere mano al portafogli.
Un’alternativa interessante e legalmente più coerente, potrebbe essere quella di certificare uno stemma familiare presso il Chief Herald of Arms of Malta, autorità araldica ufficiale istituita e regolata dalle leggi dello Stato maltese. Al pari dei certificatori araldici anglosassoni, ai quali in effetti s’ispira essendo stata britannica fino al 1974, Malta riconosce una sorta di “genteel status” ai possessori di una Lettera Patente emessa dal Chief Herald. Un onore che potrebbe essere molto simile o superiore alla stessa “Distinta civiltà”, visto che sarebbe protetto dalle leggi di uno Stato. Naturalmente, sia in Europa che nel mondo esistono altre autorità araldiche, ma per brevità non è possibile citarle tutte e, in ogni caso, la maggior parte di esse non accetta richieste da cittadini stranieri.
Sulla validità dei documenti rilasciati da una autorità araldica ufficiale si riportano due affermazioni apparse a dieci anni di distanza, l’una dall’altra. La prima si trova sulla rivista Hidalguia, anno LVII 2010, n. 340-341, pag. 580 (degli Uberti): “Per quanto riguarda la legislazione italiana, in base all’articolo 30 delle disposizioni sulla legge in generale, i documenti araldici emessi da Stati con i quali la Repubblica Italiana intrattiene rapporti di reciprocità legale, se hanno tutti i requisiti giuridici richiesti nella nazione che ha rilasciato il documento garantendo la sua validità, anche nell’ambito della Repubblica Italiana costituiscono documento pubblico facente piena prova”.
La seconda è contenuta nel libro “I processi nobiliari nell’Ordine di Malta” (G. Quadri di Cardano 2021), pag. 458: “Al contrario le certificazioni degli araldi e re d’armi costituiscono sicuramente idonea prova dell’utilizzo da parte di una famiglia dello stemma gentilizio. E fanno piena prova della nobiltà eventualmente attribuita dall’araldo e della genealogia che viene certificata qualora l’araldo o re d’armi sia un funzionario di governo”.
In effetti, Malta oltre ad essere membro UE ha sottoscritto specifici trattati bilaterali con l’Italia, anche in materia di beni culturali e protezione delle immagini, tra i quali rientrerebbero gli emblemi araldici registrati dal Chief Herald. Non v’è dubbio, quindi, che una Lettera Patente di araldica, genealogia e nobiltà, emessa da un funzionario di stato, in conformità alle leggi che lo istituiscono e lo regolano, è da ritenersi prova legale del possesso dello stemma, dei titoli nobiliari eventualmente riportati e della genealogia in essa contenuti.
Nel maniacale mondo araldico, non poteva mancare una convinzione del Conte Capogrossi Guarna, il quale andava ripetendo che il popolo, fintanto avesse tenuto in considerazione gli emblemi gentilizi, avrebbe rispettato il principio di autorità, di cui la classe nobile era più di ogni altra depositaria.
Come sempre, ci scusiamo se per dovere di brevità non sia stato possibile approfondire certi aspetti o citare i tanti meritevoli.