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Platealità

Bisognerebbe, in qualsivoglia rapporto, tenere a molta distanza la platealità, nel nostro tempo purtroppo ovunque diffusa, e a maggior ragione da quell’arte che assomiglia a un incontro di pugilato, con “il suono del gong sostituito dal cincin dei bicchieri di champagne”, come diceva con efficace metafora il Presidente francese Georges Pompidou. Ma i bicchieri di champagne sono di altra era.                                                           No, la platealità non s’addice per niente all’arte che dovrebbe, trattando, portare le bombe a quietarsi, a non proseguire con rovine e morte. Arte raffinata che richiede compostezza di forma e di pensiero per il conseguimento dello scopo. Ma come può la diplomazia, in un mondo divenuto plateale al massimo, non seguire il diffuso costume, non farsi spettacolo di quel genere? E molto conta anche la personalità di coloro che seggono al tavolo delle trattative, e ancora il peso dello Stato di ciascuno che di quel tavolo fa parte. Relativamente a ciò, possiamo riflettere che le trattative non potranno mai sortire la tanto conclamata pace giusta (è difficile che gli Stati siano sullo stesso piano, ancor più difficile far tornare lo status quo, ridare ciò che si è perso), a meno che quel giusta non si intenda come opus iustitiae, di prevenzione cioè della guerra, di riparazione del disordine che la guerra ha generato.                                                                                                                                  Anche nel XXI secolo il globo sta procedendo alla maniera di sempre, pensiamo quindi che converrebbe, per non avviarci a visioni distopiche, abbracciare la riflessione di Benedetto Croce in La Storia come pensiero e azione”, dove il filosofo sostiene che “non c’è mai decadenza che non sia formazione o preparazione di nuova vita e pertanto progresso”. Ovviamente necessita badare ai fatti, senza sbandierare utopismi e irenismi, inoltre senza approntare tribunali dove pronunciare condanne. “Non siamo qui a dare colpe -diceva il presidente Usa John Kennedy- o per giudicare, dobbiamo affrontare il mondo così com’è e non come poteva essere”. Perché -diciamo- non averlo reso come poteva essere, è colpa di noi esseri umani, irrazionali più che razionali. Si deve perciò considerare che tutti possono indistintamente essere dichiarati colpevoli e al tempo stesso incolpevoli, che la libertà, per Croce sempre “inquieta” e “malsicura” può esistere solo se diviene combattente.  Fra gli esseri umani, lo sostiene Kant, purtroppo la pace “non è uno stato naturale”, essa va per il filosofo costruita, viene quindi fuori da uno sforzo cosciente, dalla necessità del reciproco rispetto. Purtroppo, però, in nessuna era gli esseri umani si sono lasciati prendere dal potere dell’amore degli uni verso gli altri, a maggior ragione i leader, innamorati tutti di ben altro potere.                                                                                                                                   E da sempre le bombe non fanno che scatenare altre bombe, non portano pace, bisogna allora ricorrere alla parola che distolga da quelle, maggiormente esiziali nell’era nucleare. Bisogna in ogni modo impegnarsi a dissuadere dalla guerra. La parola è anche arte di convincimento, ma, a quanto pare, viene coltivata poco in tal senso. Eppure da antichissimo tempo quella parola ha svolto il suo ruolo. Far pace o far fare pace è arte remota: il più antico accordo diplomatico conosciuto è il trattato di Qadesh, risalente al 1259 a. C., stipulato tra il faraone Ramses II e l‘ittita Hattusili III. Nell’iter della storia si constata che non avverte la necessità di mettere in atto la diplomazia solo l’Impero che si sente troppo forte, l’Impero Romano a esempio, e ciò accade sino a un certo tempo.      America First o qualche altro Stato pensa di poter ripetere? Le situazioni sono molto diverse, nessuno è Stato leader da solo e, per quanto riguarda America First, sebbene voglia trarre dalla sua parte la Russia, non può trascurare il Dragone, da sempre vicino all’Orso, né essa, al pari di nessun altro Stato, può inoltre dimenticare gli Stati già in competizione, India e Brasile, e gli emergenti. E non si può avere in non conto l’Europa dove gli Usa sono pure, da tanti decenni, presenti sotto varie forme, dove anche altri Stati hanno i loro interessi. D’altro canto poi non deve l’Europa lasciarsi prendere da eccessivo timore come fosse un don Abbondio, tanto per usare un riferimento molto efficace a rendere celerrima la comprensione di quanto viene rilevato.                                                                                                                Comunque, tornando alla diplomazia, quella moderna inizia con le relazioni tra gli Stati del Nord Italia durante il basso Medioevo, è infatti da quel tempo che comincia ad essere l’arte di “sapere esattamente – come rifletteva secoli dopo Oscar Wilde- quanto olio bisogna mettere insieme all’aceto per una buona insalata”. E la critica non deve assolutamente essere parte della diplomazia che ha come obiettivo di far fare all’altro quello che all’uno è conveniente. Il presidente Roosevelt, riprendendo un proverbio africano, a tal proposito soleva dire: “Parla gentilmente e portati un grosso bastone”. Dunque essenziale è la parola gentile, il che non vuol dire svuotata di sostanza ma avvolgente a tal misura da portare l’altro ad acconsentire a quanto viene proposto non certo a suo pro. In caso di guerra preferibile alla prosecuzione di essa che è solo tragedia, crimine, per quanto possa quella ritenersi necessaria, da giustificare.                                      Scriveva Otto Von Bismarck: “Chiunque abbia mai guardato negli occhi vitrei di un soldato morente sul campo di battaglia dovrebbe pensarci bene prima di iniziare una guerra”. Oggi è ancora peggio, dato che quegli “occhi vitrei” sono anche di civili, di bambini, donne e anziani, dei tanti soggetti fragili che subiscono la guerra, i quali non hanno più rifugio perché ovunque è distruzione e morte.

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Antonietta Benagiano

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