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Professione infermiere: una vocazione che il sistema sta spegnendo

(Di Yuleisy Cruz Lezcano)

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Negli ultimi anni, si è parlato spesso della fuga degli infermieri dagli ospedali italiani. I dati sono impietosi: oltre diecimila professionisti all’anno lasciano il Servizio Sanitario Nazionale e la tendenza non accenna a invertirsi. Ma se titoli e analisi giornalistiche si concentrano frequentemente su salari bassi, carichi di lavoro e insufficienti assunzioni, ciò che resta troppo spesso escluso dal dibattito pubblico è la qualità del clima lavorativo, la sostenibilità sociale della professione e l’intricato intreccio delle dinamiche relazionali quotidiane vissute dagli infermieri, nelle corsie e nei reparti. È qui che si annida una crisi meno visibile, ma forse ancora più profonda: una crisi di senso, di riconoscimento, di comunicazione e di ascolto.

La giornata di un infermiere comincia in salita. Non tanto per l’orario o per la fatica fisica, che pure sono reali, ma perché, ancora prima di iniziare il turno, si è già immersi in un sistema che appare privo di coordinate umane sostenibili. Non sapere se si riuscirà a finire il turno, se ci sarà un collega in meno, se si dovrà coprire un’assenza imprevista con una responsabilità in più, sono condizioni che generano uno stress quotidiano che non è più eccezione, ma regola. Non si tratta solo di stanchezza: il burnout, in questo contesto, è una condizione strutturale, alimentata da un progressivo svuotamento emotivo e professionale. L’infermiere diventa così figura silenziosa, schiacciata tra l’urgenza della prestazione e l’impossibilità di essere riconosciuto nel proprio ruolo. Gli studi sulla sindrome da stress lavoro-correlato lo confermano: la perdita di motivazione non è legata solo al carico di lavoro, ma all’assenza di riconoscimento, alla mancanza di comunicazione efficace, all’impossibilità di esprimere il proprio vissuto professionale in un contesto che ascolta e valorizza.

All’interno delle strutture sanitarie italiane, infatti, ciò che manca non è solo il personale, ma un pensiero organizzativo capace di vedere nella relazione un valore. Le comunicazioni sono spesso unidirezionali, le decisioni calate dall’alto senza consultazione né spiegazione, in un clima dove gli operatori si sentono strumenti e mai interlocutori. Questo contribuisce a creare un senso di estraneità rispetto alle scelte aziendali: non si comprendono le logiche, non si condivide la missione, non si partecipa alle trasformazioni. Ciò che dovrebbe essere un luogo di cura diventa, così, uno spazio dove il tempo è nemico, la pressione è costante e il senso di appartenenza si frantuma. Le relazioni fra colleghi sono spesso l’unico argine alla disgregazione emotiva, ma anche queste sono sottoposte a una tensione continua. Dove manca il personale, si accumulano rabbia, frustrazione, senso di impotenza. La collaborazione cede il passo alla sopravvivenza, la stima reciproca si logora, la solidarietà si assottiglia.

I rapporti con i superiori, in particolare, sono uno degli snodi più critici. Da un lato si chiede agli infermieri una crescente responsabilità, dall’altro non si offre né supporto né autonomia decisionale. Le figure dirigenziali appaiono spesso distanti, focalizzate su parametri quantitativi piuttosto che qualitativi, e incapaci di farsi carico delle difficoltà reali dei propri collaboratori. I conflitti che ne derivano non sono solo personali, ma sistemici: si sviluppa una sfiducia reciproca, si incrina il rispetto professionale, si spegne la possibilità di un dialogo costruttivo. E così, ogni giorno, gli infermieri portano il peso non solo del corpo, ma anche di un’intera organizzazione che non li rappresenta e che spesso li isola. In questo quadro, il distress – una forma di stress negativo e disfunzionale – si manifesta con sintomi sempre più evidenti: insonnia, somatizzazioni, depressione, assenteismo, ma soprattutto quella disaffezione silenziosa che precede l’abbandono della professione.

A chi osserva dall’esterno, questo fenomeno può sembrare legato a motivi economici, e certamente il problema delle retribuzioni rimane centrale. Ma parlare solo di stipendi bassi significa ignorare il cuore del problema: la relazione deteriorata tra professionista e sistema, la mancanza di coinvolgimento, la svalutazione del tempo e della persona. Gli infermieri non se ne vanno solo perché guadagnano poco, se ne vanno perché non sono ascoltati, perché non sentono di avere un posto riconosciuto all’interno della macchina sanitaria, perché ogni giorno vengono trattati più come prestatori d’opera che come professionisti con una visione, una competenza, una sensibilità. In questa crisi si riflette anche un modello culturale che ha smesso di attribuire valore al lavoro di cura. La narrazione dell’eroe della pandemia è durata poco, spazzata via non appena la retorica non è più servita a coprire le falle di un sistema. Gli infermieri sono tornati invisibili, caricati di nuove mansioni, vincolati a protocolli stringenti, senza spazi reali di confronto. Le istituzioni promuovono misure tampone, come la detassazione degli straordinari, ma continuano a non affrontare il nodo centrale: come rendere questa professione desiderabile, sostenibile, degna di essere scelta, amata e vissuta per una vita intera. Le nuove generazioni lo percepiscono chiaramente e disertano le facoltà infermieristiche. E chi è già dentro, inizia a contare i giorni per uscirne. La vera emergenza, dunque, non è solo quantitativa. È qualitativa, relazionale, simbolica. Senza una riforma culturale e organizzativa profonda, che parta dal riconoscimento del valore umano della professione infermieristica, il sistema rischia di collassare non tanto per mancanza di fondi, ma per mancanza di senso. Perché non si può curare nessuno, se chi cura è lasciato solo, svuotato, stanco e invisibile.

 

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