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Lo storico israeliano Avi Shlaim spiega come Hamas voleva che la Corte penale internazionale indagasse il 7 ottobre. Ma Israele ha rifiutato quella richiesta

Nelle settimane successive all’attacco del 7 ottobre 2023  il giorno in cui Hamas lanciò un’offensiva su vasta scala al confine con Israele, causando migliaia di vittime e decine di ostaggi  emerse una componente meno nota del conflitto: una manovra diplomatica parallela al fronte bellico, che coinvolgeva la Corte penale internazionale (CPI, o ICC in inglese). Secondo l’affermazione dello storico israeliano Avi Shlaim, Hamas avrebbe voluto che la CPI intervenisse già fin da subito per indagare quei fatti, ma Israele  che non è parte dello Statuto di Roma  respinse la richiesta. Questo episodio solleva interrogativi sulla dimensione legale e simbolica del conflitto, sul diritto internazionale e sui limiti delle corti internazionali in conflitti asimmetrici.

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Un dibattito legale già avviato il 7 ottobre

L’idea che una delle parti del conflitto invochi fin dal suo inizio un esame giudiziario internazionale non è inedita nel diritto dei conflitti armati, ma è particolarmente insolita in scenari così micidiali. Secondo la versione proposta da Shlaim, Hamas avrebbe cercato di ottenere un riconoscimento legale formale della gravità degli attacchi del 7 ottobre, sollecitando che la CPI aprisse un’inchiesta su crimini di guerra, crimini contro l’umanità o altre violazioni gravi del diritto internazionale umanitario.

Lo scopo strategico di una tale mossa sarebbe duplice:

  1. Rivendicazione di legittimità attraverso il ricorso al diritto  in un conflitto dove la narrazione è centrale, presentarsi come parte che chiede trasparenza e giustizia può conferire una legittimazione internazionale.

  2. Prevenzione (o vincolo) sulle azioni di Israele una indagine della CPI, anche solo annunciata, potrebbe esercitare costrizione politica su Tel Aviv, limitando margini di manovra nelle operazioni militari per paura di future sanzioni o incriminazioni.

Tuttavia, questa strategia avrebbe richiesto la cooperazione di Israele o almeno un riconoscimento implicito della giurisdizione della CPI  cosa che non avvenne.


Israele e la non partecipazione alla CPI

Uno dei nodi fondamentali è che Israele non è parte dello Statuto di Roma, il trattato che istituisce la CPI. Ciò significa che, di principio, Israele non ha accettato la giurisdizione della Corte rispetto ai propri cittadini.

In passato, questa situazione ha prodotto un tipo di “cooperazione selettiva”: sebbene Israele non riconosca la CPI come foro competente per le sue forze, in alcune fasi ha collaborato con indagini internazionali o accettato esami esterni, ma sempre entro limiti molto stretti.

Quando gli avvocati delle vittime israeliane o i familiari degli ostaggi cercarono di spingere la CPI a intervenire sul 7 ottobre, Israele oppose una resistenza diplomatica e legale: negò l’automatismo della giurisdizione e sollevò questioni sull’ammissibilità e la competenza territoriale. Israele sostiene che le sue operazioni militari rientrino nell’autodifesa, e che le alleanze e i contesti molto complessi del conflitto rendano difficile un intervento immediato senza pregiudizi politici.

In una fase successiva, l’ufficio del procuratore della CPI chiese mandati di arresto contro figure di Hamas e contro funzionari israeliani ma questo non significa che Israele abbia accettato che la Corte indagasse sin dall’inizio. Notizie ONU+2Times of Israel+2


Le argomentazioni di Shlaim: cosa significa quel “rifiuto”

Avi Shlaim, noto storico del Medio Oriente e spesso critico delle politiche ufficiali israeliane, inserisce questo episodio nel quadro più ampio delle dinamiche tra diritto, memoria e potere nel conflitto israeliano‑palestinese. Secondo la sua analisi:

  • Il tentativo di portare la CPI sul campo al 7 ottobre mirava a creare un registro legale fin dall’inizio, contrastando l’idea che quel giorno fosse solo un atto terroristico incontestabile.

  • Il “rifiuto” israeliano non sarebbe solo un diniego concreto, ma un messaggio politico: Israele non avrebbe voluto che il conflitto fosse trattato in termini di crimini internazionali su un piano di parità simbolica.

  • Il blocco di un’iniziativa giudiziaria contro Hamas avrebbe permesso a Israele di gestire l’escalation bellica con margini di discrezionalità maggiori, senza doversi confrontare con inchieste straniere sulle modalità delle sue operazioni.

  • Infine, il rifiuto tende ad alimentare una narrativa di impunità: se non si consente l’indagine da principio, le azioni militari successive restano in gran parte fuori da un controllo esterno neutro.

Va notato tuttavia che le fonti pubbliche non riportano conferme definitive che Hamas abbia formalmente presentato una richiesta già il 7 ottobre, né che la CPI abbia reagito in quel momento. Le cronache parlano piuttosto di iniziative successive, spesso promosse da vittime o organizzazioni della società civile. Ma l’ipotesi evocata da Shlaim che un attore non statuale tenti di dare al conflitto un profilo legale internazionale sin dal suo inizio — è significativa sul piano interpretativo.

Dopo le fasi iniziali, l’azione della CPI è divenuta più concreta. Nel maggio 2024, il procuratore Karim Khan presentò domande per mandati di arresto contro figure chiave:

  • Hamas: Yahya Sinwar, Ismail Haniyeh e Mohammed Deif, accusati di crimini quali omicidio, sequestro di ostaggi e crimini contro l’umanità. Notizie ONU+2Misbar+2

  • Israele: i mandati includevano il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant, in relazione alle operazioni militari condotte a Gaza e ai possibili crimini connessi alla difesa del territorio. Notizie ONU+2Al Jazeera+2

Queste mosse hanno suscitato reazioni contrastanti: Israele le ha fortemente condannate, definendole inaccettabili e paragonando la richiesta a una “equivalenza morale” tra vittime e aggressori. Al Jazeera+1 Dal canto suo, l’ufficio del procuratore ha argomentato che esistono “motivi ragionevoli” per credere che siano stati commessi crimini sotto la giurisdizione della Corte. Notizie ONU+1

Nonostante ciò, l’emissione dei mandati — e soprattutto la loro effettiva esecuzione — dipende dalla cooperazione degli stati e dalla capacità della Corte di intervenire su individui che spesso non possono essere facilmente localizzati o arrestati.

Le sfide giuridiche e simboliche

Questo scenario mette in luce le tensioni strutturali che affliggono l’uso del diritto internazionale nei conflitti contemporanei:

  1. Competenza e riconoscimento
    Quando uno Stato non aderisce alla Corte, come nel caso di Israele, l’azione della CPI dipende dallo status territoriale o da altri meccanismi (es. il riconoscimento dello Stato della Palestina come parte). Ciò rende l’azione giudiziaria fragile dal punto di vista giuridico.

  2. Tempi e accesso ai fatti
    Il conflitto armato evolve rapidamente, le prove possono essere distrutte, le testimonianze mutare. Aprire un’indagine “a freddo” è assai più difficile che intervenire in tempo reale.

  3. Legittimazione e funzione politica del diritto
    Una Corte internazionale non è neutra: ogni richiesta di intervento pesa politicamente. Se Hamas avesse chiesto la CPI, lo avrebbe fatto come strumento di narrazione e legittimazione.

  4. L’impatto reale sul terreno
    Anche quando vengono emessi mandati di arresto, la capacità materiale di arrestare e processare figure potenti in un contesto di guerra è limitata.

  5. Narrazioni contrapposte
    Israele ritiene di agire in autodifesa dopo un attacco terroristico massiccio; Hamas e i suoi sostenitori affermano di lottare contro un’occupazione. In mezzo c’è il diritto internazionale: ma ciò che appare materia tecnica assume forza simbolica.

Se si accetta la premessa proposta da Shlaim  che Hamas volesse la CPI fin dal 7 ottobre e che Israele rifiutò  l’episodio diventa un piccolo tassello di una guerra più ampia per il significato del conflitto. È difficile provare oggi che tale richiesta istituzionale sia stata formalmente presentata quel giorno, ma l’idea è suggestiva: implica che non soltanto le armi ma anche la giustizia internazionale fossero parte del teatro bellico fin dall’inizio.

Tuttavia, anche se così fosse stato, quel tentativo non cambiò la realtà concreta: Israele non ha accettato la giurisdizione della CPI e ha respinto ogni implicazione legale diretta fin dall’inizio. Ciò ha consentito all’escalation militare di procedere senza che venisse subito messo in campo un contrappeso giudiziario internazionale. Solo in una fase successiva la CPI è intervenuta (o ha cercato di intervenire), con tutti i limiti del caso.

In conclusione, la versione proposta da Shlaim funge più da lente interpretativa che da cronaca verificata ma è utile: ci ricorda che dietro il conflitto sanguinoso si giocano anche battaglie simboliche e legali, e che chi controlla la narrazione può guadagnare terreno anche in assenza di vittorie militari nette.

FOTO Wikipedia

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