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“Se è vero che un procuratore può essere indagato per corruzione per scagionare oppure per condannare qualcuno, allora quale fiducia il cittadino comune può riporre nella Magistratura?”

La recente notizia che un procuratore della Repubblica possa essere indagato per corruzione non per aver commesso un errore giudiziario, ma per aver volontariamente favorito o danneggiato qualcuno in cambio di un tornaconto personale solleva interrogativi profondi e inquietanti sulla tenuta del sistema giudiziario italiano.

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Perché se è vero che anche coloro che dovrebbero rappresentare l’incarnazione della legge possono piegare la giustizia ai propri interessi, allora su quale terreno può poggiare la fiducia del cittadino comune?

La giustizia tradita dall’interno

Non si tratta di un episodio isolato. Negli ultimi anni, tra intercettazioni imbarazzanti, nomine pilotate e accuse di corruzione interna, l’immagine della magistratura è stata spesso offuscata. I magistrati non sono infallibili, questo è umano. Ma quando si passa dall’errore al dolo, quando un procuratore, cioè colui che dovrebbe tutelare l’interesse pubblico e perseguire la verità, viene sospettato di vendere sentenze o orientare le indagini per convenienza personale, il danno non è solo istituzionale. È un terremoto etico.

Per il cittadino, già spesso smarrito in una giustizia lenta, complessa e percepita come lontana, questa è una ferita grave. La magistratura è l’ultima difesa in uno Stato di diritto: quando tutto crolla, è lì che ci si rivolge. Se anche quella si incrina, chi resta a garantire che verità e giustizia non siano merci di scambio?

Come può un imputato avere fiducia che sarà giudicato con imparzialità? Come può una vittima credere che il suo caso sarà seguito senza secondi fini? E come può un testimone sentirsi al sicuro se la verità può essere messa all’asta?

In un Paese in cui ogni corpo istituzionale è chiamato a rispondere delle proprie responsabilità, la magistratura resta una delle categorie più restie all’autocritica. Il principio dell’autonomia e dell’indipendenza  sacrosanto in democrazia  rischia però di trasformarsi in autoreferenzialità quando viene usato per coprire opacità o per sottrarsi al giudizio.

Il paradosso è evidente: per garantire una giustizia davvero imparziale, servirebbe maggiore trasparenza proprio all’interno degli organi giudiziari.

Non si tratta di attaccare l’intera magistratura: la stragrande maggioranza dei giudici e dei PM lavora con dedizione, tra mille difficoltà, in silenzio e spesso sotto minaccia. Ma è proprio per tutelare questi servitori dello Stato che bisogna isolare e condannare con fermezza i casi di corruzione.

Serve una riforma culturale, ancor prima che normativa. Una magistratura che non abbia paura di guardarsi allo specchio, che sappia espellere chi tradisce la toga, e che pretenda da sé stessa quel rigore che chiede ai cittadini.

La fiducia nella giustizia non è un dogma, è un patto fragile che si rinnova ogni giorno con l’esempio, la trasparenza, l’equità. Se quel patto si spezza, non è solo un problema della magistratura: è una crepa nella tenuta democratica del Paese.

Perché quando anche il giudice diventa sospettabile, chi giudicherà i giudici?

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