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Trump: dai genitori immigrati alla posizione di anti-immigrati. La saga della famiglia Trump

 La parabola politica di Donald J. Trump è una delle più controverse e discusse della storia americana recente. La sua ascesa alla Casa Bianca nel 2016 ha segnato un punto di svolta, non solo per gli Stati Uniti, ma per l’intero panorama politico occidentale. Tra le tante tematiche che hanno caratterizzato la sua amministrazione e le sue successive campagne elettorali, una in particolare si staglia con forza: l’immigrazione. La retorica anti-immigrati è stata uno dei cavalli di battaglia di Trump, dal celebre slogan “Build the Wall” alla politica di “tolleranza zero” al confine con il Messico. Eppure, in un paradosso che appare quasi ironico, la famiglia Trump ha origini profondamente radicate nell’immigrazione.

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Dalla Germania all’America: il patriarca Friedrich Trump

La storia della famiglia Trump in America inizia con Friedrich Trump, nonno di Donald. Nato nel 1869 a Kallstadt, un piccolo villaggio nella regione tedesca della Renania-Palatinato, Friedrich emigrò negli Stati Uniti nel 1885 all’età di soli 16 anni. Giunto a New York senza soldi né conoscenze, trovò lavoro come barbiere, prima di spostarsi verso ovest, attratto dalla febbre dell’oro.

Nel boom economico che accompagnò la corsa all’oro del Klondike, Friedrich costruì una piccola fortuna gestendo ristoranti e hotel — alcuni dei quali, secondo documenti storici, offrivano anche servizi di prostituzione. Tornato brevemente in Germania, cercò invano di riottenere la cittadinanza tedesca, che aveva perso emigrando. Fu respinto e costretto a tornare negli Stati Uniti, dove si stabilì definitivamente.

La sua storia è quella classica dell’“American Dream”: un immigrato povero che, con intraprendenza e determinazione, riesce a costruirsi un futuro prospero in un nuovo mondo. Una narrazione che, ironicamente, è stata spesso negata o dimenticata dal suo famoso nipote.

Mary Anne MacLeod: dall’isola di Lewis alla Quinta Strada

Anche la madre di Donald Trump, Mary Anne MacLeod, era immigrata. Nata nel 1912 sull’isola di Lewis, nelle remote Ebridi Esterne della Scozia, arrivò negli Stati Uniti nel 1930 a bordo del transatlantico RMS Transylvania. Registrata come “domestica” nei documenti di immigrazione, si stabilì inizialmente a New York, dove lavorava come governante.

Nel 1936 conobbe Fred Trump, figlio di Friedrich, e lo sposò nel 1936. La coppia ebbe cinque figli, tra cui Donald, nato nel 1946. Mary Anne mantenne forti legami con la sua terra natale per tutta la vita, tanto che Donald Trump, anni dopo, acquistò una proprietà in Scozia anche in memoria della madre.

Mary Anne non solo era un’immigrata, ma rappresentava uno dei tanti volti della migrazione europea nel periodo tra le due guerre: donne giovani, sole, in cerca di una nuova vita oltreoceano. Eppure, anche questa parte della storia familiare è rimasta sullo sfondo nella narrazione pubblica del magnate newyorkese.

Fred Trump: l’ascesa dell’immobiliare e le prime ombre

Fred Trump, padre di Donald, rappresenta il ponte tra la generazione degli immigrati e quella dei nati nel benessere americano. Nato nel Bronx nel 1905, costruì un impero immobiliare nell’area di New York grazie agli appalti federali durante e dopo la Seconda guerra mondiale.

Figura controversa, Fred è stato più volte accusato di pratiche discriminatorie nei confronti degli affittuari afroamericani. Insieme al figlio Donald, nel 1973 fu oggetto di una causa per discriminazione razziale presentata dal Dipartimento di Giustizia. Questo episodio segnò uno dei primi momenti in cui il nome Trump comparve sulle cronache nazionali per motivi non finanziari.

Donald Trump crebbe all’interno di questa realtà: una famiglia benestante ma con radici umili, una figura paterna dominante e una madre silenziosamente elegante, testimone di un’America che si stava trasformando.

Il paradosso politico: da discendente di immigrati a nemico dell’immigrazione

Quando Donald Trump annunciò la sua candidatura alla presidenza nel 2015, il tono fu chiaro fin da subito. Nel suo discorso d’esordio, dichiarò: “Quando il Messico manda la sua gente, non manda il meglio. Mandano droga, crimine, stupratori…”.

Da quel momento, la linea anti-immigrazione divenne centrale nella sua retorica: la costruzione del muro al confine con il Messico, il Muslim Ban (che limitava l’ingresso negli Stati Uniti da alcuni paesi a maggioranza musulmana), la separazione dei bambini dai genitori nei centri di detenzione, la revoca dello status di protezione temporanea (TPS) per migliaia di immigrati centroamericani. L’immigrazione fu dipinta come una minaccia esistenziale per la sicurezza e l’identità americana.

Tuttavia, la posizione di Trump appare, se non ipocrita, quantomeno contraddittoria. Non solo entrambi i suoi genitori erano immigrati, ma la moglie Melania, ex modella slovena, è anch’essa un’immigrata naturalizzata. Alcune indagini giornalistiche hanno suggerito che il suo percorso verso la cittadinanza americana non fu privo di irregolarità. Inoltre, i genitori di Melania hanno ottenuto la green card tramite un processo noto come “immigrazione a catena” — lo stesso che Trump ha più volte promesso di abolire.

La strategia dietro la retorica

Perché, allora, un uomo che incarna in modo così diretto la storia dell’immigrazione americana ha scelto di adottare una retorica così duramente ostile verso i nuovi arrivati?

La risposta è in parte politica. Trump ha saputo intercettare e cavalcare il risentimento di una parte dell’elettorato bianco, rurale, che si sente minacciato dai cambiamenti demografici e culturali. L’immigrazione è diventata il capro espiatorio perfetto: una questione tangibile, emotivamente carica, facilmente polarizzante.

In secondo luogo, Trump ha sempre gestito la comunicazione come un reality show, puntando su messaggi semplici, slogan forti, e nemici chiari. In questa logica binaria, l’immigrato è stato trasformato da simbolo del sogno americano a minaccia per l’America stessa.

La storia della famiglia Trump è, in fondo, una storia americana. Un nonno tedesco in cerca di fortuna, una madre scozzese arrivata con una valigia di sogni, un padre costruttore durante il New Deal, e infine un figlio presidente degli Stati Uniti.

Ma è anche una storia di rimozione, di rifiuto delle proprie radici, o quantomeno di strumentalizzazione. Donald Trump ha scelto di ignorare o riscrivere  la propria eredità familiare per adattarsi a una narrazione politica vincente.

In un’epoca in cui la verità sembra sempre più fluida, la saga dei Trump ci ricorda quanto possa essere fragile  e selettiva  la memoria storica. Ma anche quanto sarebbe necessario, oggi più che mai, riscoprire la complessità delle nostre origini per affrontare con onestà le sfide del presente.

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