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Karen Attiah licenziata dal Washington Post dopo aver evidenziato commenti offensivi di Charlie Kirk: cronaca di un caso che scuote il giornalismo

New York, 16 settembre 2025 – Karen Attiah, nota editorialista afroamericana di lunga data al Washington Post, è stata licenziata la scorsa settimana in quello che si configura come un caso emblematico delle tensioni crescenti tra libertà di espressione, responsabilità sociale e politiche editoriali nei grandi quotidiani americani. Il motivo al centro della polemica: alcuni post sui social media nei quali Attiah aveva messo in luce commenti fatti da Charlie Kirk, commenti giudicati fortemente offensivi nei confronti delle donne nere, insieme a critiche più ampie sulla violenza politica, il controllo delle armi e i “doppi standard morali” nella società statunitense.

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Karen Attiah, nata nel 1986, lavora al Washington Post dal 2014. Nei primi anni ha contribuito come editor e nel 2016 ha fondato la sezione Global Opinions del quotidiano. Divenuta opinionista a tempo pieno nel 2021, il suo lavoro era spesso incentrato su temi di razza, diritti civili, e disuguaglianze socio-politiche.

L’evento che ha fatto scattare la controversia è l’assassinio di Charlie Kirk, attivista conservatore legato al movimento MAGA, avvenuto di recente (“Charlie Kirk’s killing”). Subito dopo, Attiah ha pubblicato vari messaggi sui social e su Substack nei quali criticava la violenza politica, esprimeva frustrazione per la mancanza di impegno concreto negli Stati Uniti circa il controllo delle armi, e metteva in luce ciò che secondo lei erano atteggiamenti di “ipocrisia” nel modo in cui la società reagisce alla morte di persone bianche rispetto ad altri casi, soprattutto quando entrano in gioco razza e genere.


La frase incriminata e la giustificazione di Attiah

Uno dei post nei quali Attiah cita espressamente Charlie Kirk riguarda una sua affermazione del 2023, in cui si attribuiva a Kirk che alcune note donne nere – tra cui figure politiche e giudici – “non hanno la capacità di elaborazione cerebrale per essere prese veramente sul serio” e che “devono rubare un posto (slot) a una persona bianca per essere un po’ prese sul serio”.

Attiah ha espresso che il suo riferimento a questo commento non fosse un attacco personale o gratuito, ma una messa in evidenza critica di dichiarazioni pubbliche ritenute discriminatorie e indicative di un più ampio problema politico e sociale. Ha detto di aver usato la sua voce “per difendere la libertà e la democrazia, interrogare il potere e riflettere su cultura e politica con onestà e convinzione”.

Le accuse e la reazione del Washington Post

Secondo quanto scritto dalla stessa Attiah, il Washington Post ha valutato i suoi messaggi social come “inaccettabili”, “grave cattiva condotta” (“gross misconduct”), e affermazioni che mettevano in pericolo la sicurezza fisica dei colleghi, accuse che lei respinge fermamente come infondate.

Attiah sostiene che il licenziamento sia avvenuto “senza nemmeno una conversazione”, definendolo “un passo affrettato e sproporzionato”, nonché una violazione degli standard di imparzialità e rigore che il Post reclama di rispettare.

Il Post, da parte sua, ha declinato commenti specifici sulla vicenda personale, richiamando le proprie politiche sul comportamento sui social media da parte degli impiegati.

Le implicazioni: razza, genere, politica editoriale

Un aspetto centrale della controversia è che con il licenziamento di Attiah, il Washington Post perde la sua ultima opinionista nera a tempo pieno nella sezione opinioni. Attiah stessa ha sottolineato come questo fatto riflette un problema più ampio di rappresentanza nel media mainstream, soprattutto in una città come Washington D.C. che è estremamente diversificata.

Inoltre, il caso si inserisce in un momento di cambiamenti interni al Post: sotto la proprietà di Jeff Bezos e con il nuovo editor delle opinioni, Adam O’Neal, si segnala una linea editoriale che possiede forti enfasi su libertà personali e mercato libero, e che avrebbe portato – dicono fonti vicine alla redazione a tensioni con giornalisti le cui opinioni non si allineano perfettamente a queste priorità.

Critiche, difese e dibattito pubblico

  • Difesa di Attiah: la giornalista contesta le motivazioni effettivamente avanzate dall’editore, sostiene che non ci fosse una sola pubblicazione recente offensiva o falsa, ma piuttosto critiche di carattere politico-sociale già ampiamente presenti nel dibattito pubblico. Attiah insiste che le sue parole erano “descrittive” più che offensive e basate su fatti, non celebrazione della morte di Kirk.

  • Critica pubblica e sindacati: la Washington Post Guild, il sindacato che rappresenta i giornalisti del quotidiano, ha definito il licenziamento “ingiusto”, denunciando che non sono stati rispettati i processi disciplinari standard, e segnalando che la decisione indebolisce il mandato del giornale di garantire pluralismo e libertà di critica.

  • Reazioni nell’opinione pubblica: il caso ha suscitato ampio dibattito su social media, altre testate giornalistiche, comunità accademiche e gruppi per i diritti civili. Molti sostengono che questo licenziamento sia sintomatico di un clima in cui le voci critiche – specialmente da parte di persone nere  vengano sempre più messe a tacere nel settore dei media. Altri, invece, ritengono che il giornale abbia il diritto di decidere quali commenti reputa accettabili o meno, soprattutto se ritiene che possano creare conflitto, mettere a rischio la sicurezza o ledere le proprie politiche editoriali.


Elementi da chiarire e scenari possibili

Ci sono ancora punti aperti che richiedono accertamenti:

  1. Quale post o pubblicazione ha effettivamente determinato il licenziamento: Attiah afferma che non c’è stato un post specifico singolo che violasse le politiche, ma piuttosto il complesso delle sue posizioni pubbliche; l’editore non ha finora reso nota una procedura disciplinare completa.

  2. Conformità alle regole del giornale: Attiah sostiene che le sue parole erano compatibili con le politiche sui social media del Washington Post, mentre il Post sostiene il contrario, ma senza documentare in pubblico i passaggi che hanno condotto alla decisione.

  3. Possibile ricorso legale o sindacale: Attiah e il sindacato giornalistico hanno già segnalato che verrà presentato un reclamo formale, sostenendo che il licenziamento violi accordi lavorativi o regole interne aziendali.

  4. Effetti sulla libertà di stampa e sul pluralismo: molti osservatori temono che casi come questo creino un effetto intimidatorio su altri editorialisti o giornalisti che vogliano esprimersi criticamente su razza, genere o potere, specialmente se di minoranze. Potrebbe aumentare l’auto-censura.

Il licenziamento di Karen Attiah segna una tappa significativa nel dibattito contemporaneo su cosa significhi essere opinionisti in America, su quali siano i limiti della critica nei confronti del potere politico, sociale e culturale, e su chi decida quali parole siano “accettabili”.

Se da un lato ogni giornale ha il diritto di fissare proprie linee editoriali e standard, dall’altro casi come questo sollevano domande essenziali su rappresentanza, giustizia e trasparenza interna: chi ha voce nel grande coro mediatico? In che modo si equilibrano le libertà individuali con la responsabilità sociale? E come può un’istituzione giornalistica mantenere credibilità quando sembra silenziare voci critiche, soprattutto da quelle che provengono da minoranze?

Karen Attiah ha dichiarato che non intende tacere. Il dibattito che ne è scaturito è già diventato parte integrante del racconto del giornalismo moderno, e probabilmente avrà conseguenze durature: nei contratti, nelle politiche editoriali, nella fiducia del pubblico nelle istituzioni dell’informazione.

FOTO New York Times


Fonti principali: ANSA, The Guardian, The Independent, NdTV, Wikipedia.

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