Il DNA sotto le unghie di Chiara Poggi è valido. Ora cosa succede?
Garlasco – A distanza di oltre 18 anni dal brutale omicidio di Chiara Poggi, la giovane di 26 anni uccisa nella sua abitazione il 13 agosto 2007, una nuova svolta riapre interrogativi mai sopiti. La recente perizia genetica disposta dalla Corte d’Assise di Brescia ha stabilito che il DNA ritrovato sotto le unghie della vittima è “valido”, ovvero non contaminato e utilizzabile ai fini identificativi. Una conclusione che potrebbe riaprire definitivamente uno dei casi giudiziari più controversi della cronaca nera italiana.
Il test genetico, effettuato su richiesta della difesa di Alberto Stasi già condannato in via definitiva a 16 anni per l’omicidio della fidanzata è stato affidato a un team di esperti nominati dalla Corte. I risultati, depositati pochi giorni fa, hanno escluso contaminazioni ambientali e confermato che il materiale biologico presente sotto le unghie di Chiara è idoneo per il confronto con profili DNA noti. Ma cosa significa davvero questa svolta? E, soprattutto, cosa succede ora?
La scoperta: una traccia trascurata per anni
Il DNA sotto le unghie di Chiara non è una novità emersa all’improvviso. Fu repertato già durante i primi esami autoptici, ma per anni è stato considerato non utilizzabile per via della scarsa quantità e della presunta contaminazione. La traccia, però, è tornata al centro dell’attenzione nel 2023, quando la difesa di Stasi detenuto dal 2015 ha chiesto la revisione del processo, puntando proprio su quegli elementi genetici mai analizzati a fondo.
Ora, il fatto che la traccia sia stata giudicata idonea cambia il quadro probatorio: se si dovesse dimostrare che quel DNA appartiene a un soggetto diverso da Stasi, si aprirebbe uno spiraglio per la revisione del processo e, potenzialmente, per un ribaltamento della condanna.
Una condanna senza prove dirette
Il caso Garlasco ha sempre diviso l’opinione pubblica. Alberto Stasi è stato inizialmente assolto in primo e secondo grado, per poi essere condannato nel processo d’appello bis, dopo l’annullamento della Cassazione. La sentenza definitiva del 2015 si è basata su una serie di indizi ritenuti concordanti dai giudici: la camminata dell’imputato sulla scena del crimine senza sporcarsi le suole delle scarpe, il comportamento anomalo nei minuti successivi alla scoperta del cadavere, le contraddizioni durante gli interrogatori.
Tuttavia, è mancata una prova regina. Nessuna traccia di sangue di Chiara sugli abiti di Stasi, nessuna arma del delitto ritrovata, nessuna impronta. Ora, quella traccia genetica sotto le unghie potrebbe diventare proprio ciò che non c’è mai stato: un indizio materiale di scontro fisico con l’aggressore.
Il parere degli esperti: “La traccia c’è, va confrontata”
Il professor Giorgio Portera, genetista forense e consulente della difesa, ha dichiarato che “è ora tecnicamente possibile effettuare un confronto tra la traccia genetica sotto le unghie e i profili presenti nel database”. Il passo successivo sarà proprio questo: isolare il profilo DNA e confrontarlo con quello di Stasi, e, in caso di incompatibilità, con altri soggetti vicini alla vittima o già coinvolti nelle indagini.
Il fatto che la traccia sia definita “mista” cioè contenente materiale genetico sia di Chiara che di un secondo individuo lascia presagire che un’aggressione possa aver lasciato segni tangibili. “La vittima potrebbe aver graffiato l’aggressore durante una colluttazione,” spiega Portera, “ed è verosimile che parte del materiale biologico dell’assalitore sia rimasto sotto le sue unghie.”
La revisione: strada stretta, ma percorribile
La validazione del DNA non comporta automaticamente la revisione del processo. Tuttavia, può costituire un elemento di “nuova prova”, come previsto dall’art. 630 del Codice di Procedura Penale. La difesa di Stasi è già al lavoro per presentare istanza alla Corte d’Appello competente, chiedendo l’ammissione della revisione sulla base dell’emergere di un elemento non conosciuto al tempo della sentenza.
La Corte dovrà ora decidere se sussistano i presupposti per riaprire il processo. In caso affermativo, si aprirebbe un nuovo dibattimento, in cui i giudici dovranno valutare se la nuova prova può ragionevolmente escludere la colpevolezza dell’imputato già condannato.
“Non vogliamo assoluzioni facili,” ha dichiarato Fabio Giarda, avvocato di Stasi, “ma il diritto alla verità non si prescrive. Se c’è una possibilità concreta che la condanna sia frutto di un errore, lo Stato deve verificarlo fino in fondo.”
Non si sono fatte attendere le reazioni. La famiglia Poggi, che da anni combatte per difendere la memoria di Chiara e la validità della condanna, ha espresso “sgomento e preoccupazione” per l’ennesimo colpo di scena. “Ci affidiamo alla giustizia,” ha dichiarato la madre della vittima, “ma è doloroso dover rivivere tutto questo, ancora una volta.”
Diversa l’atmosfera nel fronte opposto. I familiari di Stasi, da sempre convinti della sua innocenza, parlano di “speranza concreta” e si dicono fiduciosi che la verità “possa finalmente emergere senza pregiudizi.”
Anche tra i commentatori, il clima è teso. C’è chi parla di “giustizia spettacolo” e chi, al contrario, sottolinea la necessità di un sistema processuale aperto alla revisione, specie nei casi in cui nuove tecnologie scientifiche consentano di riconsiderare prove precedentemente inutilizzabili.
Uno specchio della giustizia italiana
Il caso Garlasco ha assunto, col tempo, un valore che va oltre il singolo delitto. È diventato uno specchio dei limiti, ma anche delle potenzialità, della giustizia italiana: le lungaggini processuali, le interpretazioni divergenti degli stessi indizi, il ruolo crescente della prova scientifica.
Se da un lato l’ordinamento garantisce la possibilità di revisione per evitare errori giudiziari irreversibili, dall’altro impone soglie molto alte per accedervi. Non basta sollevare dubbi: occorre dimostrare che la nuova prova avrebbe potuto portare a un verdetto diverso.
La partita, insomma, è tutta da giocare. Il DNA sotto le unghie di Chiara Poggi è valido: questo è un dato. Ma la strada verso una possibile revisione è ancora lunga e disseminata di ostacoli giuridici, emotivi e mediatici.
In un sistema ideale, ogni sentenza dovrebbe coincidere con la verità. Ma nella pratica, ci sono casi – come quello di Chiara Poggi – in cui la verità giudiziaria fatica a conciliarsi con l’opinione pubblica, le emozioni delle famiglie, e persino con l’evoluzione della scienza.
Cosa succede ora? In primo luogo, si attende il confronto genetico completo. Poi, sarà la giustizia a decidere se e come riaprire il caso. Qualunque sarà l’esito, resta una certezza: una giovane donna è stata brutalmente uccisa, e chiunque sia stato, merita di essere identificato con certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio.
Perché Chiara non è solo un caso di cronaca: è una ferita ancora aperta nella coscienza di un Paese.











