ISRAELE, IL MENSILE JESUS: COSA NE RESTA DEL PAESE PLURALISTA E RISPETTOSO DI TUTTE LE FEDI?
Nel numero di ottobre del mensile del Gruppo Editoriale San Paolo, è proposta l’analisi di due attenti osservatori di origine ebraica: la scrittrice e giornalista Anna Mogliano e Jonathan Sierra, torinese residente a Gerusalemme, attivista impegnato nell’organizzazione delle marce per la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas.
Sono passati due anni dal 7 ottobre 2023, quando l’attentato terroristico di Hamas provocò 1.200 vittime, per lo più civili israeliani, e il rapimento di oltre 250 persone. Come era prevedibile, lo spietato attacco produsse l’immediata reazione militare di Israele.
A due anni di distanza, però, la guerra voluta dal governo di Bibi Netanyahu continua. E più che distruggere Hamas, sta distruggendo la popolazione civile palestinese di Gaza. Come è possibile che “l’unica democrazia del Medio Oriente” consenta al suo governo di mettere in atto azioni militari e politiche degne dei peggiori regimi autoritari del pianeta? Cosa sta succedendo alla società civile israeliana?
Jesus lo ha chiesto a due esperti analisti, entrambi ebrei: Anna Momigliano, giornalista milanese, autrice del recentissimo volume Fondato sulla sabbia. Un viaggio nel futuro di Israele (Garzanti); e Jonathan Sierra, ebreo torinese che vive da anni a Gerusalemme, attivista politico impegnato nell’organizzazione delle marce per la liberazione degli ostaggi ancora in mano ad Hamas.
«Ci sono due modi di vedere l’orrore che si sta scatenando su Gaza», ha risposto Anna Momigliano. «Il primo è l’idea che Israele sia sempre stato uno Stato criminale e adesso sia semplicemente cambiato l’ordine di grandezza dei suoi crimini. L’altro è che ciò che sta accadendo da due anni a questa parte sia un tradimento dei valori democratici su cui Israele è nato. Io penso che ci sia un fondo di verità in entrambe le posizioni».
«Trovo problematico fare il necrologio della democrazia in Israele», ha invece risposto Sierra. Bisogna infatti «distinguere il governo (di Netanyahu) dallo spirito del Paese», che «resta indubbiamente democratico». «Non so cosa succederà alle prossime elezioni», ha aggiunto Sierra, «ma Netanyahu ha 75 anni, non è eterno, ed è così megalomane che non sta facendo crescere nessuno che possa prendere il suo posto. Invece la società israeliana è dinamica e molto solidale, anche se non coesa».
Il 7 ottobre ha cambiato il quadro della situazione all’interno della società israeliana? Secondo Momigliano, ha fatto emergere «il senso di abbandono più totale da parte di questo governo: Netanyahu ha spostato l’esercito e lasciato sguarnito il sud, gli ostaggi abbandonati, perché chiaramente questa guerra non è fatta per salvare loro».
E poi «ha riportato l’attenzione degli israeliani sulla questione palestinese, che era stata sostanzialmente dimenticata». Concorda Sierra: «Israele ha da sempre la tendenza a ignorare i problemi, sperando che scompaiano. Netanyahu è maestro in questo. Dopo il 7 ottobre non possiamo più farlo. Anche se questo apre la questione dello Stato palestinese».
Il governo Netanyahu, che si regge su una coalizione di forze molto diverse e in alcuni casi assai divise tra loro, è stato contestato duramente nelle piazze israeliane. Quale futuro politico si intravede? «Il governo», risponde Momigliano, «si regge su un’anima securitaria che fa coincidere il processo di pace con la crescita del terrorismo; un’anima nazionalista messianica, rappresentata dalla sua componente più estremista (Ben Gvir e Smotrich) che vuole riprendersi Gaza; e i partiti ultraortodossi che stanno lì soprattutto per convenienza. Non è affatto detto che questa coalizione regga un secondo mandato, ma quel che è certo è che qualsiasi governo favorevole al processo di pace deve reggersi su un’alleanza tra partiti di centro-sinistra e partiti arabi: è una questione numerica, senza questa alleanza il “partito della pace” non può vincere».
Per il momento, comunque, il governo Netanyahu procede spedito nei suoi piani: l’occupazione militare di Gaza e, contemporaneamente, il proposito di annessione della Cisgiordania (votato a luglio con una mozione approvata dalla Knesset). Che cosa significano questi due atti?
«L’annessione della Cisgiordania», dice Momigliano, «significherebbe che Israele diventa uno Stato non democratico: i palestinesi diventerebbero cittadini con meno diritti degli altri. Si creerebbe quella che alcuni chiamano la One State Reality: la realtà dello Stato unico, anziché dei due Stati. Non credo che la maggioranza degli israeliani sostenga l’annessione, ma penso abbia la tendenza a non vedere la questione, a tacere». L’invasione di Gaza, invece, «è lo specchio di un fallimento su molti piani: prima di tutto etico, ma anche politico, strategico e militare. Anche il Capo di stato maggiore ha detto che si tratta di una pura follia».
Secondo Sierra, invece, «quello che è successo il 7 ottobre ha reso tutti più scettici e sfiduciati. Non credo che la maggioranza del Paese sia favorevole all’annessione, ma bisogna capire bene cosa diventerebbe lo Stato palestinese che nasce: che garanzie di pace darebbe a Israele? Sarebbe governato da estremisti o da moderati?». Per ciò che riguarda Gaza, infine, «le operazioni militari mettono in gravissimo pericolo gli ostaggi» e «una sconfitta di Hamas che non riporti a casa ostaggi vivi sarebbe una terribile sconfitta per Israele e produrrebbe una lacerazione insanabile all’interno della società».
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