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Alberto Negri svela tutta la verità: “Israele ci ha comprato con la cyber security? Nessuno ne parla”

 

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ROMA – «Ci hanno comprato, Peter (Gomez). L’8 marzo 2023 questo governo ha firmato un accordo per l’appalto della nostra cybersecurity a Netanyahu. Il capo della cybersecurity, due giorni prima, si è dimesso perché non voleva firmarlo». È con questa frase dura e provocatoria che il giornalista Alberto Negri condensa una delle sue più recenti accuse verso il governo italiano: una sorta di “cedimento strategico” nella gestione delle tecnologie digitali critiche, che secondo lui implica una perdita di sovranità nazionale. La Fionda+2Antimafia Duemila+2

Il tema merita attenzione. Le affermazioni di Negri non sono isolati colpi di teatro: si inseriscono in un discorso più ampio che va dal rafforzamento dei rapporti Italia‑Israele agli interessi della cybersecurity, fino alle conseguenze geopolitiche. Ma quali sono i fatti accertati, quali le zone d’ombra, e quanto possiamo considerare “verità” ciò che viene detto?


Il contesto: cooperazione italo‑israeliana e cybersecurity

Negri non è l’unico a sollevare dubbi sull’intreccio fra politica, sicurezza e tecnologia. Diversi articoli di analisi già evidenziano che, sul piano della sicurezza informatica, l’Italia ha stretto legami crescenti con soggetti israeliani. Centro Studi Eurasia e Mediterraneo+2Antimafia Duemila+2

Ad esempio, l’azienda Tekapp con sede a Modena ha promosso iniziative di cybersecurity in collaborazione con figure legate all’“Unità 8200” dell’esercito israeliano, offrendo servizi di “ethical hacking” alle imprese italiane. Diritti Globali+1 In un articolo sul “Centro Studi Eurasia e Mediterraneo”, si fa riferimento a contratti fra il governo italiano e la società israeliana Paragon Solutions, sospettata di aver impiegato uno spyware chiamato “Graphite” per intercettazioni. Centro Studi Eurasia e Mediterraneo Anche l’attività della società Cgi Group con personale legato ai servizi israeliani  è citata come esempio di “presenza israeliana” nei sistemi di sicurezza italiani. Centro Studi Eurasia e Mediterraneo

Va anche ricordato che Israele è riconosciuto a livello internazionale come potenza avanzata nel settore della sorveglianza digitale: l’azienda NSO Group, con sede in Israele, è nota per lo spyware Pegasus, oggetto di numerose inchieste internazionali per il suo utilizzo contro attivisti, giornalisti e figure pubbliche in vari Paesi. Wikipedia

Questi elementi forniscono un “terreno credibile” a chi accusa che l’Italia abbia delegato parti sensibili della propria strategia digitale a interlocutori esterni, anche con interessi propri. Tuttavia, da qui a dire che “Israele ci ha comprato” c’è un salto che richiede prove precise.


Le accuse di Negri: cosa sostiene e cosa manca

L’affermazione forte di Negri si articola su alcuni punti chiave:

  1. Una firma di governo per un “appalto” della cybersecurity verso Israele
    La frase «appalto della nostra cybersecurity a Netanyahu» suggerisce un accordo di affidamento sistematico e vincolante. Tuttavia, non è stato trovato un documento pubblico che confermi un appalto integrale della cybersicurezza nazionale a una controparte israeliana.

  2. Le dimissioni del capo della cybersecurity (Roberto Baldoni) come reazione all’accordo
    È vero che il 6 marzo 2023 si dimise Roberto Baldoni, allora direttore dell’Agenzia italiana per la Cybersicurezza Nazionale (ACN). La Fionda+1 Secondo il racconto ricorrente, la sua uscita sarebbe legata a contrasti interni rispetto all’intesa in discussione con Israele. Ma non esistono dichiarazioni certe da parte di Baldoni che confermino che la sua scelta fu motivata esclusivamente da questa ragione.

  3. Una “consegna della sovranità” tecnologica e il silenzio mediatico
    L’asserto che “nessuno ne parla” si basa su un presunto black-out mediatico intorno al tema. È vero che non è stata data un’attenzione costante e approfondita nei grandi media mainstream, ma il fatto che il tema emerga più spesso nei media critici e nei blog indica che non sia del tutto ignorato.

Se da un lato alcune delle premesse (cooperazioni italo-israeliane, presenza di aziende israeliane nel settore cyber italiano) sono supportate da articoli e segnalazioni, dall’altro mancano documenti ufficiali, conferme delle parti coinvolte o prove chiare che attestino la portata delle accuse di Negri.

Le accuse lanciate da Negri hanno suscitato risposte, sfumature e contestazioni, sia da parte di commentatori che in ambienti accademici. Ecco alcuni elementi di contrasto:

  • Assenza di documenti ufficiali: non è emerso finora un contratto pubblico che sancisca la cessione della cybersecurity nazionale a soggetti israeliani.

  • La natura della cooperazione internazionale in ambito tech: i rapporti internazionali in materia di cybersicurezza spesso prevedono collaborazioni, scambi di tecnologie, joint venture, e non sempre una “vendita” di competenze.

  • Mancanza di trasparenza governativa: se ci fosse davvero un accordo che implichi una significativa perdita di controllo, ci si aspetterebbe una discussione parlamentare o almeno una qualche forma di rendicontazione pubblica, cosa che non è avvenuta con evidenza finora.

  • Interpretazioni alternative delle dimissioni di Baldoni: potrebbero esserci motivazioni diverse, interne alla governance della cybersecurity o divergenze politiche, non necessariamente legate a un “affare con Israele”.

In alcuni commenti critici si suggerisce che la reticenza dell’Italia nel condannare le politiche israeliane, soprattutto sul conflitto israelo-palestinese, possa dipendere anche da questa presunta “dipendenza tecnologica”. Antimafia Duemila+1 Altri invece la considerano una teoria troppo avventata, che sfrutta elementi reali ma li interpreta in modo eccessivamente sospettoso.

Un’analisi equilibrata: dove siamo davvero

Alla luce delle evidenze disponibili, un approccio giornalistico prudente conduce a queste conclusioni intermedie:

  • È indubbio che l’Italia abbia rapporti crescenti nel settore cybersecurity con aziende israeliane, e che alcune iniziative locali (come Tekapp‑Unità 8200) esistano sul territorio nazionale.

  • Il fatto che Baldoni si sia dimesso a marzo 2023 è un dato concreto; la correlazione con un accordo specifico con Israele è invece una ricostruzione che finora non ha trovato conferma documentata.

  • Le affermazioni generiche di “consegna della sovranità digitale” sono suggestive, ma richiedono prove più solide ad esempio, clausole contrattuali, relazioni tecniche, verbali ufficiali o ammissioni da parte delle istituzioni coinvolte.

  • Il silenzio mediatico generalista può essere reale, ma non è assoluto: il tema è dibattuto, almeno nei circuiti critici o specializzati nell’area della politica estera e tecnologica.

In altre parole: parte della “verità” che Negri mette in luce trova terreno ragionevole, ma le conclusioni radicali (“comprati interamente”, “abbiamo ceduto il controllo totale”) restano affermazioni che vanno indagate più a fondo, non accettate acriticamente.


Perché questa accusa ha peso: implicazioni geopolitiche e democratiche

Anche se alcune tesi di Negri si basano su ricostruzioni incerte, il discorso merita di essere preso sul serio per almeno tre ragioni:

  1. Sovranità digitale come nuovo terreno di contesa
    In un mondo sempre più interconnesso e dominato dai dati, chi controlla le infrastrutture critiche (server, algoritmi, reti) esercita un potere strategico. La dipendenza tecnologica da attori esteri può trasformarsi in leva di pressione geopolitica.

  2. Trasparenza e responsabilità democratica
    Affidare servizi di sicurezza essenziali senza una discussione pubblica mette a rischio il principio di accountability: chi decide, chi verifica, chi è responsabile in caso di guasti o abusi?

  3. Rappresentazione mediatica e opinione pubblica
    Se un tema così centrale rimane ai margini dei grandi media, si alimenta una forma di disinformazione o “non conoscenza” che smorza il dibattito democratico su questioni strategiche.

Alberto Negri ha gettato una sfida forte al dibattito pubblico: far emergere che forse l’Italia ha ceduto parte della propria tutela digitale a interessi stranieri, con conseguenze potenzialmente gravi. Le sue accuse vanno accolte non come verità immutabili, ma come spunti critici da verificare con rigore giornalistico.

Chi opera nella politica, nei servizi, nella tecnologia ha ora una responsabilità: chiarire  ufficialmente e pubblicamente  quali accordi esistono, con chi, con quali vincoli. E se tali accordi fossero dannosi per la sovranità nazionale o per la trasparenza democratica, vanno rivisti o denunciati.

Per il lettore è utile sapere che in questa vicenda non tutto è bianco o nero. C’è un intreccio di interessi, omissioni, tecnologie complesse e gioco geopolitico. Il compito di chi informa è scavare, chiedere documenti, sollevare dubbi verificabili  non soltanto accettare proclami.

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