Garlasco. Il carabiniere che voleva uccidere il procuratore Napoleone: Il PM va in pensione e forse lo uccido
Una frase agghiacciante, pronunciata o scritta durante una conversazione privata, ha scosso la tranquillità di questo comune pavese: «Il PM va in pensione e forse lo uccido». A pronunciarla, secondo quanto emerge da atti d’indagine e da fonti investigative citate dagli inquirenti, sarebbe stato un carabiniere in servizio. La vicenda, ancora avvolta da molte ombre, ha aperto un’inchiesta interna e giudiziaria che fa interrogare la comunità sul ruolo delle istituzioni e sui controlli nelle forze dell’ordine.
I fatti. Gli elementi emersi fino a oggi raccontano di un sospetto piano o, nella migliore delle ipotesi, di una minaccia grave rivolta contro il procuratore della Repubblica Napoleone, figura di primo piano nella lotta alla criminalità locale e protagonista di inchieste sensibili negli ultimi anni. La frase riportata negli atti sarebbe stata intercettata nell’ambito di un procedimento investigativo avviato per motivi che gli investigatori definiscono ancora riservati. L’indagine è coordinata sempre secondo le stesse fonti dalla procura competente per reati commessi da appartenenti alle forze dell’ordine.
Contesto e reazioni. Lo sgomento si è immediatamente diffuso: colleghi della vittima, alti ufficiali e rappresentanti sindacali hanno espresso sconcerto e richiesto chiarimenti rapidi e trasparenti. «Se confermate, tali affermazioni sono inaccettabili e richiedono provvedimenti disciplinari e penali», è il commento di esponenti della magistratura locale, che preferiscono mantenere l’anonimato per non intralciare l’attività investigativa. Anche i vertici dell’Arma hanno inizialmente adottato toni cauti, sottolineando la necessità di verificare le fonti e ricordando che ogni militare è tenuto a rispettare vincoli deontologici e la legge.
Al momento, la minaccia risulta essere oggetto di indagine, ma non è ancora stata confermata ufficialmente dalle fonti giudiziarie come una dichiarazione penalmente rilevante e accertata in modo definitivo.
Ecco cosa si può dire con chiarezza, secondo prassi e fonti investigative affidabili:
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La frase “Il PM va in pensione e forse lo uccido” risulta agli atti di un’indagine: è stata intercettata o riportata all’interno di un procedimento aperto per altri motivi o nato proprio in seguito a quella dichiarazione.
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L’identità dell’autore (presunto un carabiniere) è oggetto di accertamenti, ma nessun nome è stato ancora confermato ufficialmente dalle autorità competenti.
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Le fonti giornalistiche e investigative parlano di una minaccia o di una frase pericolosa emersa nel corso di un monitoraggio (che potrebbe essere stato ambientale, telefonico o riferito da testimoni), ma non è chiaro se fosse ironica, provocatoria, dettata da rabbia o reale.
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La Procura competente ha aperto un fascicolo (che potrebbe essere al momento a carico di ignoti o dell’indagato specifico), ma non ha rilasciato comunicazioni ufficiali circa l’intenzione di procedere per reati specifici come minaccia grave o istigazione a delinquere.
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Nessuna accusa formale di progettazione di un attentato o tentato omicidio è stata confermata pubblicamente finora.
L’ipotesi di reato. Gli inquirenti valutano più profili: dalla minaccia semplice o aggravata fino all’istigazione o alla formulazione di un progetto criminoso. La qualifica giuridica dipenderà dalle modalità della comunicazione, dal contesto, e dalla eventuale esistenza di ulteriori atti o comportamenti concreti che possano configurare un pericolo reale per l’incolumità del magistrato. «Non si tratta solo di parole», osservano fonti vicine alle indagini: «quando a pronunciarle è un operatore della sicurezza pubblica, il livello di allarme sale».
La persona indagata. L’interessato, un carabiniere in servizio nella provincia, sarebbe stato posto sotto procedimento disciplinare e a quanto risulta è al centro di accertamenti che riguardano anche la sua condizione psicologica e l’eventuale rapportarsi con ambienti estremisti o con soggetti che potrebbero aver incoraggiato il gesto. Gli avvocati difensori, contattati attraverso canali non ufficiali, hanno ribadito la presunzione d’innocenza e sostenuto che potrebbe essersi trattato di una frase detta in un momento di rabbia o di eccesso retorico, priva di qualsiasi concreta realizzazione.
Le possibili motivazioni Gli investigatori stanno indagando sui moventi che avrebbero portato il carabiniere a esprimere una tale minaccia. Tra le ipotesi sul tavolo vi sono rancori personali, attriti professionali, rancori nati da inchieste condotte dal procuratore o da provvedimenti disciplinari che avrebbero coinvolto la persona indagata o suoi conoscenti. Non è esclusa, inoltre, la pista della radicalizzazione individuale: negli ultimi anni le forze dell’ordine hanno dovuto confrontarsi con casi di isolamento, stress post-servizio e di esposizione a informazioni e teorie estremiste che in alcuni casi hanno prodotto comportamenti devianti.
Le garanzie di sicurezza Nel frattempo sono scattate misure precauzionali per tutela del magistrato e per garantire la serenità dell’ufficio della procura. La Prefettura ha avviato un tavolo con le forze dell’ordine locali per valutare eventuali esigenze di protezione. «La tutela dei magistrati è prioritaria», spiegano fonti istituzionali: «ogni minaccia va presa sul serio e neutralizzata attraverso procedure adeguate». Si tratta di un equilibrio delicato: da un lato la necessità di non allarmare inutilmente la cittadinanza, dall’altro l’obbligo di garantire che chi svolge funzioni pubbliche sensibili possa farlo in sicurezza.
Il peso simbolico della vicenda. La circostanza che a minacciare sia stato un appartenente a una forza dell’ordine ha un valore simbolico forte: mette in discussione la fiducia nei confronti di chi ha il compito di proteggere la collettività. Non è un particolare secondario: la democrazia riposa anche sul reciproco rispetto delle regole da parte di chi è investito di potestà coercitiva. «Quando gli uomini e le donne in divisa tradiscono quel patto, il danno è doppio», osserva un ex magistrato interpellato informalmente. «Non è solo una questione di codice penale, ma di tenuta del tessuto istituzionale».
Il procuratore Napoleone. La figura del PM al centro delle minacce è nota per l’attività spesa su fascicoli complessi e per una linea di rigore nella gestione delle inchieste. Contattati dall’ufficio stampa della procura, i collaboratori hanno preferito non rilasciare dichiarazioni sull’indagine in corso, ribadendo però che l’ufficio continuerà a lavorare con la stessa determinazione. «Le intimidazioni non devono mai piegare il lavoro della magistratura», è stato detto in una nota ufficiale. La comunità locale, intanto, ha espresso vicinanza e solidarietà al procuratore, con esponenti civici e politici che condannano ogni forma di minaccia o violenza.
Aspetti procedurali e possibili scenari. I prossimi giorni saranno determinanti per chiarire la natura della comunicazione incriminata: gli inquirenti dovranno accertare se esistono elementi concreti che possano tradursi in un piano d’azione, se la frase è stata pronunciata in un contesto colloquiale o se è stata invece pronunciata con intento serio. Sarà fondamentale anche valutare la credibilità delle fonti e delle eventuali intercettazioni o documenti acquisiti. Sul piano disciplinare, l’Arma potrà adottare provvedimenti immediati in caso di violazione del codice di condotta; sul piano penale, se emergeranno elementi sufficienti, potranno scattare richieste di rinvio a giudizio.
Il dibattito pubblico. La vicenda ha rinfocolato il dibattito sul controllo interno delle forze di polizia e sulla prevenzione dei fenomeni di devianza tra i loro ranghi. Sindacati, forze politiche e associazioni civiche chiedono non solo punizioni esemplari in caso di responsabilità accertate, ma anche strumenti di prevenzione: assistenza psicologica, monitoraggio periodico, formazione su temi etici e legali, e protocolli chiari per la gestione delle minacce interne. «Prevenire è meglio che reprimere», nota un esperto di diritto amministrativo. «Ma prevenire richiede investimenti e una cultura organizzativa diversa».
A Garlasco, la minaccia lanciata che sia stata dettata da rancore personale, da una parola detta col cuore in mano o da un progetto più oscuro ha creato uno scossone che travalica la dimensione locale. È una prova sulla resilienza delle istituzioni e sulla capacità di reagire con trasparenza. La giustizia, in questo caso, dovrà fare il suo corso: verificare i fatti, distinguere la provocazione dal pericolo reale e assicurare che responsabilità e rimedi siano proporzionati alla gravità. Nel frattempo, la comunità osserva, aspetta risposte e chiede che il principio sia chiaro: nelle democrazie lo Stato di diritto si difende anche da chi, vestito di una divisa, tradisce la fiducia affidatagli.




