L’ossessione del Premio Nobel: Trump accusa la commissione e rilancia la sua candidatura
Oslo / Washington – Nel giorno in cui la Commissione norvegese ha annunciato l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace al leader dell’opposizione venezuelana María Corina Machado, l’ex presidente statunitense Donald Trump ha reagito con un lungo sfogo pubblico, riproponendo con forza la sua ormai nota ambizione di ottenere il riconoscimento più prestigioso per la pace. Il suo discorso raccolto e diffusosi rapidamente attraverso media americani e social è allo stesso tempo una rivendicazione, un’accusa e una strategia comunicativa: “mi hanno tolto quello che mi spetta”, è il messaggio implicito. Di seguito, riportiamo le sue parole integrali (nella versione resa nota in lingua inglese, con traduzione a fronte) e offriamo un’analisi puntuale del contenuto, delle sue contraddizioni e del contesto politico che lo alimenta.
Il testo integrale delle dichiarazioni di Trump
(Nota: il discorso è stato pubblicato sui canali di comunicazione di Trump e ripreso dai media statunitensi; non è noto che esista una versione “ufficiale” norvegese.)
“They gave it to Obama. He didn’t even know what he got it for. He was there for about 15 seconds and he got the Nobel Prize. He said, ‘Oh, what did I get it for?’”
“With me, I probably will never get it.”
“I’ve stopped seven wars. That’s never been done before. But no, I won’t get a Nobel Peace Prize no matter what I do — including Russia/Ukraine, and Israel/Iran, whatever those outcomes may be — but the people know, and that’s all that matters to me!”
“They’ll find a reason not to give it to me. That’s how it is.”
(Versione italiana sintetica — non ufficiale)
«Lo hanno dato a Obama. Lui non sapeva nemmeno per cosa lo prendeva. Stette lì per quindici secondi e prese il Premio Nobel. Disse: “Oh, per cosa l’ho preso?”
Con me probabilmente non lo prenderò mai.
Ho fermato sette guerre. Non è mai stato fatto prima. Ma no, non prenderò il Premio Nobel per la Pace qualunque cosa io faccia — incluso Russia/Ucraina, e Israele/Iran, qualunque siano i risultati — ma il popolo lo sa, ed è tutto ciò che conta per me!
Troveranno una scusa per non darmelo. È così che vanno le cose.»
Commento e analisi critica
1. Contesto e motivi dell’attacco retorico
L’ossessione di Trump per il Premio Nobel non è un fenomeno nuovo. In diverse occasioni ha manifestato rancore nei confronti della commissione che assegna il riconoscimento, criticando le precedenti scelte (in particolare quella del Nobel assegnato a Barack Obama) e insinuando mancanze di equità. euronews+2deutschetageszeitung.de+2
Nel 2025, il contesto è particolarmente acceso: Trump ha organizzato una campagna visibile per farsi nominare, ricevendo appoggi da vari parlamentari e da esponenti stranieri. ogles.house.gov+2NST Online+2
D’altro canto, le probabilità che il comitato norvegese accettasse un candidato così divisivo erano giudicate basse da molti esperti, che sottolineavano la natura indipendente delle commissioni Nobel e la riluttanza ad accogliere candidature considerate politicamente sfruttate. NST Online
In questo scenario, il discorso sopra riportato appare funzionale: serve a sollevare la retorica del torto subito, a mobilitare la base e a presentare il rifiuto non come un fallimento, ma come l’inevitabile conseguenza di un sistema “ingiusto”.
2. Analisi delle affermazioni — tra rivendicazioni e contraddizioni
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“They gave it to Obama. He didn’t even know what he got it for…”
Trump qui attacca direttamente la legittimità del Nobel assegnato a Obama nel 2009, insinuando che fosse un premio immeritato e poetico, non basato su reali risultati. Tuttavia, l’idea che Obama non sapesse “cosa aveva fatto” è una semplificazione irrituale: il Nobel 2009 fu motivato ufficialmente con riferimento al ruolo di Obama nel promuovere la diplomazia internazionale e la cooperazione internazionale. Il ricorso a questa critica serve più a sollevare rancore simbolico che a un’argomentazione sostanziale. -
“I’ve stopped seven wars. That’s never been done before.”
È forse la dichiarazione più ambiziosa (e più facile da contestare). Trump afferma di aver “fermato sette guerre” durante il suo mandato o la sua azione politica. Non si specifica quali guerre, in che misura, né in quale arco temporale. In molti casi, le accuse e le rivendicazioni di Trump in materia di diplomazia e conflitti sono state contestate da analisti indipendenti che segnalano esagerazioni, iniziative incomplete o risultati incerti. NST Online+2The Washington Post+2Inoltre, l’idea che “nessuno abbia mai fatto qualcosa di simile” scontra con la storia della diplomazia internazionale: molti leader e organizzazioni hanno mediato o contribuito a cessate il fuoco, accordi di pace, riconciliazioni — anche se ovviamente con differenti risultati e limiti.
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“No matter what I do including Russia/Ukraine, and Israel/Iran, whatever those outcomes may be I won’t get [the Nobel]”
Con questa frase, Trump adotta una posizione quasi fatalistica: anche se dovesse ottenere risultati tangibili in conflitti chiave come Russia–Ucraina o Israele–Iran, non gli verrebbe riconosciuto il Nobel. In altri termini, la commissione norvegese appare come un’istituzione impermeabile alle sue realizzazioni. È una strategia retorica utile: mette il riconoscimento fuori dalla sua responsabilità e concentra la colpa (della mancata assegnazione) sulla commissione stessa. -
“They’ll find a reason not to give it to me. That’s how it is.”
Qui sale in maniera esplicita l’argomento della cospirazione o del rifiuto motivato da pregiudizio. Il “sistema” (la commissione) è dipinto come prevenuto contro di lui: troverà sempre un pretesto per escluderlo. È un classico espediente comunicativo quando si pretende di essere penalizzati da un apparato “alto”, distante e poco trasparente. -
“The people know, and that’s all that matters to me!”
In chiusura, Trump richiama l’idea che l’opinione pubblica — la sua base — sia il vero arbitro della legittimità morale del riconoscimento. È un ribaltamento della dinamica Nobel: non è più la commissione a giudicare, ma il popolo a legittimare. Il senso è: anche se la commissione mi ignora, il pubblico sa chi sono e cosa ho fatto.
In sintesi: il discorso è una miscela di rivendicazione grandiosa, attacco al sistema, anticipazione del rifiuto e inversione della legittimazione — da istituzionale a popolare.
3. Limiti del discorso, omissioni e sfide al ragionamento
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Mancanza di esempi concreti e verificabili
Se Trump afferma di aver fermato sette guerre, sarebbe naturale aspettarsi che indichi quali conflitti, in che fase e come ha contribuito concretamente. Il discorso resta generico: “Russia/Ukraine”, “Israel/Iran” sono citazioni generiche, non precise. E questo lascia spazio a contestazioni da parte di storici, diplomatici e media. -
Non considera il processo di selezione Nobel
Le commissioni Nobel agiscono secondo criteri rigorosi e in segreto: nessuno sa chi sono i candidati fino a 50 anni dopo, e ogni anno è lunga la scelta tra molti nomi. Il discorso di Trump ignora deliberatamente questa complessità, presentando la commissione come un giudice arbitrario e visibile. -
Riduzione della “pace” a eventi geopolitici di alto profilo
Trump sembra concepire il Nobel come premiale per grandi accordi internazionali — guerre tra stati e cessate il fuoco ignorando l’importanza di iniziative umanitarie locali, diritti civili, riconciliazione sociale, prevenzione del conflitto e sforzi di pace “dal basso”. La tradizione Nobel, in molti casi, valorizza anche protagonisti meno visibili ma con impatto sociale concreto. -
Logica dell’autoesenzione
Aggiungendo “no matter what I do, they won’t give it to me”, Trump si premunisce contro qualsiasi accusa di responsabilità del fallimento: se non ottiene il premio, la colpa non è di una sua mancanza, ma di una cospirazione contro di lui. In questo modo, qualsiasi esito diventerebbe coerente con la narrazione. -
Polarizzazione e retorica bipolare
Il discorso si rivolge soprattutto alla sua base di sostenitori, accentuando la divisione: chi è favorevole lo vede come vittima di un complotto, chi è contrario lo ascolta come un capriccio autoriferito. Non è pensato per convincere neutrali, ma per rafforzare le proprie cerchie.
4. Significato politico e simbolico
L’uscita di Trump non è solo un larvato “brontolio”: è parte di una più ampia strategia politica e comunicativa. Egli vuole presentarsi non solo come attore di politica estera, ma come figura che “merita riconoscimenti mondiali” e che viene osteggiata dall’establishment. In questo modo, alimenta il mito del leader outsider, perseguitato dalle élite.
Inoltre, la polemica sul Nobel serve a mantenere il tema “pace” bene in vista nella sua agenda, anche quando i dossier internazionali sono meno nitidi o nei casi in cui le sue iniziative diplomatiche sono criticate o messe in discussione. É una forma di diplomazia da social media: con poche battute, si riapre il dibattito internazionale.
Sul piano internazionale, la retorica rischia di ridurre il valore del Nobel a strumento politico nazionale, svilendo l’aura di imparzialità e dignità che la commissione ha cercato di mantenere. Il racconto “Trump contro il sistema” potrebbe attirare simpatia in parte del pubblico, ma indurre diffidenza nei circuiti diplomatici che siedono al tavolo della pace globale.
Il discorso di Donald Trump sull’assegnazione del Premio Nobel per la Pace è al tempo stesso un’autocandidatura, un’accusa e una performance comunicativa. Le sue affermazioni che va da Obama “ingiustamente premiato” alla rivendicazione di aver “fermato sette guerre” sono forti, retoriche, spesso non documentate. Il messaggio centrale è che qualsiasi risposta negativa da parte del comitato è sempre prevedibile, e dunque non responsabilità sua.
Dal punto di vista giornalistico, l’evento offre uno spaccato interessante: un uomo politico di enorme visibilità che tenta di plasmare la memoria internazionale facendo leva sull’ego, sulla narrativa del torto e sulla forza simbolica di un prestigioso riconoscimento. Il risultato: un dibattito pubblico che intreccia diplomazia, mezzi di comunicazione e mito personale.











