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Perù: dopo il Nepal ed il Madagascar cade il suo governo

Crisi politiche a catena: l’instabilità si allarga nell’emisfero sud. In Perù, proteste popolari, accuse di corruzione e una classe politica delegittimata portano al crollo dell’esecutivo. Un altro tassello in uno scenario globale di crescente turbolenza democratica.

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Dopo settimane di tensione crescente, il governo del Perù è ufficialmente caduto. Le dimissioni del presidente (o la sua destituzione, a seconda dei punti di vista) sono giunte ieri sera dopo una giornata convulsa, segnata da scontri in piazza, dichiarazioni infuocate e un voto parlamentare che ha sancito la fine dell’esecutivo in carica. Si tratta del terzo governo a cadere nel giro di due mesi a livello globale, dopo quelli di Nepal e Madagascar, in un preoccupante effetto domino che sta scuotendo gli equilibri politici di molte democrazie fragili.

Il Paese sudamericano si ritrova ancora una volta sull’orlo del caos istituzionale. Non è la prima volta: negli ultimi sei anni, il Perù ha conosciuto ben sei presidenti, con governi di breve durata, spesso travolti da scandali, inchieste giudiziarie o profonde crisi di legittimità politica.

Ma questa volta, secondo molti analisti, “la crisi è diversa”. È più profonda, più trasversale, e riflette uno scontro ormai insanabile tra le istituzioni e la popolazione, tra la politica e la piazza, tra Lima e le periferie del Paese, tra chi detiene il potere e chi da anni ne subisce le conseguenze.

La miccia: corruzione, disuguaglianze e repressione
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’ennesima inchiesta per corruzione che ha coinvolto membri chiave del governo. A inizio settembre, i media locali hanno rivelato presunti legami tra il ministro dell’Economia e un consorzio di imprese accusate di aver ottenuto appalti pubblici truccati in cambio di tangenti milionarie.

Le proteste sono esplose in diverse città del Paese, da Cusco a Trujillo, passando per la capitale Lima. Migliaia di cittadini sono scesi in piazza per chiedere “pulizia”, “giustizia” e un “governo del popolo”, slogan che si sono rapidamente diffusi anche sui social. La risposta delle autorità è stata inizialmente dura, con l’uso massiccio delle forze dell’ordine, lacrimogeni e centinaia di arresti, anche tra giornalisti e attivisti.

Ma la repressione non ha fermato l’onda di malcontento. Anzi, l’ha ingigantita. “Il Perù non è solo stanco, è esasperato”, ha dichiarato alla stampa Ana María Ríos, docente di scienze politiche presso l’Università Cattolica di Lima. “Si è rotto il patto sociale. Non c’è più fiducia in nessun attore istituzionale”.

Un Parlamento spaccato, ma deciso
La crisi è giunta al suo apice ieri, quando il Congresso monocamerale peruviano ha approvato con 91 voti favorevoli (su 130) la mozione di sfiducia contro il presidente e il suo gabinetto, dopo ore di dibattito infuocato. Al centro della discussione: non solo le accuse di corruzione, ma anche l’“incapacità morale” del governo di affrontare l’emergenza economica, la crisi sanitaria ancora in corso nelle regioni più povere e la crescente sfiducia internazionale verso il Paese.

Il presidente, in un discorso alla nazione pronunciato in diretta televisiva prima della votazione, ha parlato di “complotto” e “tentativo di golpe mascherato”, accusando alcuni settori dell’opposizione di “voler riportare il Paese a un autoritarismo mascherato da legalità”. Ma le sue parole non hanno trovato sponda né nel Parlamento né nella popolazione.

Le reazioni internazionali
La caduta del governo peruviano ha immediatamente suscitato reazioni da parte della comunità internazionale. L’Organizzazione degli Stati Americani (OEA) ha convocato una riunione straordinaria per discutere la situazione. Le Nazioni Unite hanno espresso “preoccupazione per la crescente instabilità democratica” e hanno invitato le autorità “a garantire un processo di transizione ordinato e rispettoso dei diritti umani”.

Anche il Dipartimento di Stato americano ha diffuso una nota in cui si legge: “Il Perù è un partner strategico nella regione. Seguiamo con attenzione gli sviluppi. È fondamentale che il processo di rinnovamento democratico avvenga nel rispetto della Costituzione e con il pieno coinvolgimento della società civile”.

Un’onda lunga: il paragone con Nepal e Madagascar
La caduta del governo peruviano arriva a poche settimane da due altri eventi simili che hanno interessato Paesi geograficamente lontani ma accomunati da caratteristiche strutturali: debolezza istituzionale, polarizzazione politica, forte diseguaglianza economica.

In Nepal, il crollo dell’esecutivo è avvenuto dopo mesi di paralisi politica e scontri tra le principali fazioni all’interno del Partito Comunista, con un popolo esasperato da una crisi economica galoppante e da un sistema sanitario in affanno.

In Madagascar, è stata invece l’impennata dei prezzi, unita a scandali legati alla gestione delle risorse naturali, a provocare un’esplosione sociale che ha portato alla destituzione del presidente, con accuse di “alto tradimento” mosse dalla stessa Assemblea nazionale.

Secondo alcuni osservatori, tra cui il think tank Democracy Monitor, si sta delineando “una nuova ondata di crisi politiche nei Paesi in via di sviluppo, accelerata da un contesto globale segnato da inflazione, rallentamento economico, cambiamento climatico e crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni”.

Cosa accadrà ora in Perù?
Nel breve termine, il potere è stato affidato a una presidenza ad interim, guidata dalla vicepresidente del Congresso, con il compito di traghettare il Paese verso nuove elezioni anticipate. Ma la sfida sarà tutt’altro che semplice.

La società civile reclama riforme strutturali: una nuova Costituzione, maggiore partecipazione popolare, meccanismi più severi di controllo dell’etica pubblica. Le comunità indigene, sempre più protagoniste delle mobilitazioni, chiedono riconoscimento, autonomia e rispetto dei diritti territoriali.

Intanto, l’economia peruviana mostra segni di rallentamento. Il sol, la valuta nazionale, ha subito una svalutazione del 6% in pochi giorni, mentre gli investitori internazionali guardano con crescente scetticismo alla stabilità del Paese. Anche i grandi progetti minerari, che costituiscono la spina dorsale dell’economia, sono a rischio per via dell’instabilità politica e delle proteste locali.

La caduta del governo peruviano è il sintomo di un malessere profondo che non riguarda solo Lima o Kathmandu o Antananarivo. È una crisi che attraversa il mondo, in particolare quelle democrazie dove le diseguaglianze sono più marcate, le istituzioni più fragili e la corruzione più radicata.

In un’epoca di incertezza globale, il vero interrogativo non è più “se” altri governi cadranno, ma “quando” e “come” le società sapranno reagire, ricostruendo dalle macerie un nuovo patto sociale.

Per il Perù, il futuro è ancora tutto da scrivere.

Ma oggi, come in Nepal e in Madagascar, a parlare è soprattutto la voce della piazza. E il mondo farebbe bene ad ascoltarla.

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