Il discorso di Tommaso Montanari all’Assemblea dell’ONU dei Popoli
In una Sala dei Notari gremita, con l’eco del chiostro medievale che sembrava farsi amplificatore ideale del proprio tempo, Tommaso Montanari ha preso la parola all’Assemblea dell’ONU dei Popoli per un intervento che è parso al contempo denuncia morale, rivendicazione storica e invito alla responsabilità internazionale. L’evento, nell’ambito della terza sessione dell’Assemblea svoltasi nella cornice della Marcia PerugiAssisi, aveva già acceso le aspettative: tra i relatori c’erano giornalisti, accademici, attivisti palestinesi, esperti di diritto internazionale. conferenzasalutementale.it
Montanari storico e critico d’arte, noto per i suoi scritti e le sue prese di posizione pubbliche ha scelto come titolo del proprio intervento “L’ultimo giorno di Gaza”, ma ben presto ha trascinato il discorso oltre la geografia immediata, in un respiro che voleva abbracciare tutti i “popoli in agonia” del nostro tempo.
Dalla sofferenza alla parola: registri e tono
Fin dalle battute iniziali, Montanari non ha fatto mistero del dissenso nei confronti dell’ordine mondiale “ufficiale”. Ha tracciato una linea severa tra chi parla in nome delle istituzioni Stati, Organismi multilaterali e chi cerca di restituire voce diretta ai popoli. È un principio che ha ripetuto con forza: «Se i popoli tacciono, anche le istituzioni diventano silenziose. E chi tace è complice».
Con un registro appassionato ma misurato, l’orazione procede per contrapposizioni: l’istituzionalismo formale contro la marea viva delle voci “dal basso”; il diritto internazionale piegato alle logiche del potere contro il diritto morale che reclama dignità per ogni comunità; le guerre dichiarate e i linguaggi del colonialismo moderno contro le forme invisibili di oppressione, espropriazione culturale, emarginazione.
Il discorso di Montanari non è privo di tensione retorica: scandito da pause, momenti di raccoglimento, rimandi letterari, richiami storici. Ma è sempre immerso nella concretezza delle vicende contemporanee: Palestina, ma anche migrazioni, crisi ambientali, perdita di memoria storica. Montanari evita l’astrazione e insiste sulla responsabilità effettiva degli Stati e degli “spazi intermedi” università, città, società civile nel contrastare le disuguaglianze di fatto.
Le tre direttrici del discorso
Possiamo schematizzare il suo intervento lungo tre direttrici collegate, che hanno scandito l’argomentazione.
1. Giustizia e memoria storica
Per Montanari, la memoria non è puro passato, ma risorsa critica per il presente. Ha evocato le tragedie del Novecento colonizzazioni, genocidi, deportazioni come “strumenti che continuano a forgiare il presente”. Per lui, negare, occultare o minimizzare queste storie è parte integrante del presente iniquo.
In tale prospettiva, l’“ONU dei popoli” non è un’utopia, ma una forma di resistenza contro la cancellazione storica. Le istituzioni multilaterali devono essere trasformate da meccanismi di potere in custodi della memoria e promotori di equità.
2. Sovranità, interdipendenza e “popolo-mondo”
Un tema centrale è la tensione tra sovranità statale e interdipendenza globale. Montanari ha contestato l’idea dominante nelle politiche degli ultimi decenni che sovranità equivalga a isolamento o chiusura. Al contrario, ha sostenuto, dobbiamo ridefinire la sovranità come “cura del comune”, come responsabilità condivisa rispetto ai beni pubblici globali: clima, sanità, acqua, biodiversità, diritti dei migranti.
Ma ha anche avvertito: se vogliamo che questi beni siano “comuni”, allora chi governa deve essere legittimato dai popoli, non imposta da élite. In questo senso, l’assemblea dei popoli è un atto di autoaffermazione: non per rovesciare brutalmente il sistema, ma per sollecitarne l’evoluzione.
3. L’urgenza della parola politica
L’ultimo stadio del discorso è un appello alla parola parola libera, parola feroce quando serve, parola che non si rassegna. Montanari ha scandito che i popoli hanno bisogno non solo di rappresentanti che parlino per loro, ma di piattaforme dove parlare. E ha richiamato all’importanza del traduttore colui che media, che rende intellegibile la voce di una comunità alle altre parti del mondo.
In questo spirito ha denunciato il linguaggio diplomatico come spesso neutro e complice: “parole che non dicono niente servono chi vuole nascondere le cose”. Contrariamente, la parola politica deve reimmettere conflitto, tensione, richiesta esplicita di giustizia.
Meriti, limiti e critiche anticipate
È raro assistere a un discorso così radicale in un contesto simbolico come quello di un’assemblea “alternativa”, e Montanari non si è sottratto a richiami, provocazioni, momenti controversi.
I meriti sono evidenti: ha restituito centralità al tema dei popoli, ha riconosciuto che le sfide globali non si risolvono solo con tecnicismi, e ha offerto cornici concettuali memoria, parola, responsabilità in grado di orientare le pratiche future.
Ma ci sono anche questioni che chi ascolta politici, diplomatici, attivisti possono sollevare.
Primo, il rischio dell’idealismo: come trasformare proposte così alte in percorsi concreti, dentro organizzazioni vincolate da interessi geopolitici?
Secondo, lo spazio dell’azione concreta: Montanari parla di sovranità condivisa, ma serve un piano (o almeno tracce) per costruire strumenti istituzionali che la incarnino davvero.
Terzo, la responsabilità del contesto nazionale: molti interlocutori italiani riconoscono in Montanari un riferimento critico all’attuale governo, e l’augurio è che il discorso resti oltre la contingenza, non sia chiuso in un ridotto ideologico. È una sfida che Montanari stesso sembra cogliere, invitando non all’autoreferenzialità, ma all’alleanza tra soggetti diversi.
Reazioni e contesto
Il discorso non è isolato: cade in un momento in cui gli attori della società civile chiedono all’ONU un rilancio del multilateralismo e l’apertura a soggetti al di fuori degli Stati-nazione, un’istanza evidente anche dalla formulazione stessa dell’“Assemblea dei Popoli”. conferenzasalutementale.it
Non è la prima volta che Montanari interviene pubblicamente su temi internazionali: nei mesi scorsi ha definito “complice di un genocidio” il sostegno o la neutralità di governi in conflitti attuali, rivolgendosi anche al governo italiano e criticando le sue politiche estere. La7.it+1
Già in altre assemblee analoghe e nei dibattiti culturali, Montanari ha lavorato sulla relazione tra patrimonio (culturale), memoria e sovranità, sottolineando che non c’è democrazia reale se non c’è radicamento nei luoghi e consapevolezza storica.
È prevedibile che il suo discorso venga raccolto e rilanciato nei circoli accademici, nella stampa culturale e nei movimenti per i diritti umani: farà da stimolo, più che da manifesto. Alcuni commentatori potranno accusarlo di eccessiva radicalità o di retorica idealistica, ma è precisamente questa tensione a farne un atto politico significativo.
Conclusione: tra tensione morale e tracce di futuro
Al termine del suo intervento, Montanari ha chiuso con un richiamo alla pazienza attiva: la trasformazione non è immediata, ma non è neanche rimandabile. Ha indicato che l’ONU dei popoli non è un’illusione, ma una semina: in ogni città, in ogni comunità, nei luoghi dell’istruzione e dell’arte, la voce deve riprendere coraggio.
In un’epoca in cui le istituzioni sembrano zoppicare sotto il peso degli interessi geopolitici e delle crisi tecniche cambiamenti climatici, nuove guerre, disuguaglianze l’intervento di Montanari ha portato qualcosa che a quei luoghi spesso manca: la convinzione che la giustizia non si esercita solo con le norme, ma con la parola e con il coraggio dei popoli.
Se l’ONU dei popoli resterà una nicchia simbolica o diventerà un agente reale di pressione verso le istituzioni ufficiali, dipenderà in larga misura non da un discorso, per poderoso che sia, ma dalla capacità di costruire reti, pratiche, organismi che incarnino ciò che Montanari ha evocato. Ma quel discorso severo, alto, intriso di storia avrà avuto il merito di rompere il silenzio e di indicare una direzione: che non è quella della rassegnazione, ma della parola insistente, della memoria che non tace, della giustizia che non può aspettare.











