John Mearsheimer: “Israele è in guai seri ed il mondo lo sa”
“Israele è in guai seri. Ed il mondo intero lo sa.” A pronunciare queste parole non è un editorialista radicale, né un attivista di qualche movimento internazionale, ma John J. Mearsheimer, uno dei più influenti studiosi di relazioni internazionali del nostro tempo, professore emerito all’Università di Chicago e coautore del celebre volume The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy. Un’analisi tagliente, la sua, che arriva in un momento in cui lo Stato ebraico si trova a fronteggiare una delle crisi più profonde dalla sua fondazione nel 1948.
Secondo Mearsheimer, il conflitto in corso con Gaza ancora sotto assedio, le tensioni in Cisgiordania in crescita e lo spettro di un conflitto regionale che coinvolge Hezbollah, Siria e forse anche l’Iran è solo la punta dell’iceberg. La crisi, dice, è strutturale, radicata nelle scelte politiche e strategiche degli ultimi decenni. “Non è più solo una questione di sicurezza: è una questione esistenziale. Israele ha perso il controllo della narrazione, ha perso l’appoggio internazionale in molte aree chiave, e si trova oggi con opzioni strategiche estremamente limitate.”
Una diagnosi implacabile
In una recente conferenza tenutasi a Berlino, Mearsheimer ha illustrato la sua visione con il consueto pragmatismo realistico. Secondo lui, l’approccio securitario di Israele, fondato sul dominio militare e sull’espansione degli insediamenti nei Territori Occupati, ha avuto come risultato un isolamento crescente. “L’illusione che si possa controllare un popolo intero per sempre, con la forza, è fallita. Il progetto sionista, almeno nella sua forma attuale, è arrivato a un bivio storico.”
Le sue parole trovano eco anche tra alcuni ex diplomatici israeliani. Alon Liel, già ambasciatore e direttore generale del Ministero degli Esteri, ha recentemente dichiarato che “Israele si sta avvicinando a una condizione di apartheid irreversibile”, sottolineando come l’attuale governo guidato da Benjamin Netanyahu stia portando il paese verso una rottura totale con gran parte dell’Occidente democratico.
L’erosione del sostegno occidentale
Secondo Mearsheimer, uno dei segnali più evidenti delle difficoltà di Israele è la crescente critica che arriva da ambienti tradizionalmente filoisraeliani, in particolare negli Stati Uniti. “Il sostegno incondizionato da parte di Washington non è più garantito. C’è una frattura generazionale e culturale. Le nuove generazioni di americani ebrei inclusi non vedono Israele come un baluardo della democrazia, ma come una potenza occupante.”
Lo dimostrano i dati: sondaggi recenti del Pew Research Center indicano che la maggioranza degli elettori democratici sotto i 40 anni considera la politica israeliana verso i palestinesi come “eccessiva” o “inaccettabile”. Anche all’interno del Congresso USA, un numero crescente di parlamentari progressisti come Alexandria Ocasio-Cortez e Rashida Tlaib esprime posizioni critiche, invocando condizionalità negli aiuti militari a Israele.
L’Europa, dal canto suo, pur rimanendo in gran parte diplomatica nelle sue espressioni, sta mostrando segnali di crescente impazienza. I governi di Spagna, Irlanda, Norvegia e Slovenia hanno recentemente riconosciuto ufficialmente lo Stato di Palestina, scatenando l’ira del governo israeliano. “È un messaggio politico chiarissimo, spiega Mearsheimer, e dimostra che la pazienza del mondo si sta esaurendo.”
Il peso delle scelte interne
Per Mearsheimer, i problemi di Israele non derivano soltanto da fattori esterni, ma anche e soprattutto da decisioni interne. L’espansione degli insediamenti in Cisgiordania, la crescente influenza dei partiti religiosi ultraortodossi, l’erosione delle istituzioni democratiche, e l’incapacità di offrire una soluzione politica al conflitto con i palestinesi, stanno conducendo il paese verso una deriva sempre più pericolosa.
“Israele ha due scelte: diventare uno stato binazionale, con pari diritti per tutti, e quindi rinunciare al carattere ebraico dello Stato, oppure continuare con il regime di apartheid de facto, perdendo definitivamente la sua legittimità internazionale. Entrambe le opzioni comportano costi enormi. Ma lo status quo è insostenibile.”
Uno scenario a rischio escalation
Le previsioni dell’accademico non sono ottimistiche. Il rischio di una nuova guerra regionale è, secondo lui, molto concreto. “Con la pressione crescente su Gaza, le provocazioni quotidiane in Cisgiordania, e l’ombra lunga dell’Iran, ogni scintilla può trasformarsi in incendio. Hezbollah non starà a guardare in eterno, e una guerra su più fronti metterebbe Israele in condizioni strategiche difficilissime.”
In questo contesto, Mearsheimer mette in guardia anche gli Stati Uniti: “Washington dovrebbe usare la sua influenza per forzare una soluzione diplomatica. Continuare a fornire armi senza condizioni significa contribuire all’escalation e compromettere ulteriormente la credibilità americana nel mondo arabo e islamico.”
Le reazioni in Israele
Le dichiarazioni di Mearsheimer non sono passate inosservate a Gerusalemme. Il Ministero degli Esteri israeliano ha replicato con durezza, definendo le sue posizioni “faziose” e “disinformate”. “Israele continua a essere una democrazia forte, minacciata da gruppi terroristici che non riconoscono il suo diritto all’esistenza,” si legge in una nota ufficiale.
Eppure, anche in Israele cresce il numero di voci critiche. Gruppi come B’Tselem, Breaking the Silence e il movimento “Standing Together” denunciano apertamente la situazione nei Territori Occupati e chiedono una nuova visione politica. L’opposizione, guidata da Yair Lapid, ha più volte sollecitato elezioni anticipate, accusando Netanyahu di usare la crisi per mantenere il potere.
Un bivio storico
Mearsheimer, pur critico, non è privo di speranza. La sua analisi, seppur dura, invita a una riflessione profonda. “Non è troppo tardi per cambiare rotta. Ma il tempo stringe. Il mondo sta cambiando, e Israele non può più permettersi di vivere in una bolla ideologica. La pace non è un’utopia: è una necessità strategica.”
Nel frattempo, la situazione sul terreno resta drammatica. Secondo le Nazioni Unite, oltre 35.000 palestinesi sono stati uccisi dall’inizio dell’operazione “Spada di Ferro”, mentre le vittime israeliane civili e militari superano le 2.000. Gaza è al collasso umanitario, e la Cisgiordania vive in uno stato di repressione costante.
Le parole di Mearsheimer risuonano come un campanello d’allarme. Forse, come già accaduto in altri momenti critici della storia, è proprio il riconoscimento del fallimento a rendere possibile un nuovo inizio. Ma perché questo accada, serve coraggio. Politico, morale e strategico. E serve subito.
FOTO Wikipedia
[Nota]: John Mearsheimer è uno dei principali esponenti della scuola realista delle relazioni internazionali. Le sue analisi, pur controverse, sono ampiamente seguite e discusse a livello globale. Le sue opinioni non riflettono necessariamente la linea editoriale del giornale.











