Il ministro degli esteri israeliano Gideon Sa’ar dichiara: “Non ci sarà nessuno Stato palestinese”
«Non ci sarà nessuno Stato palestinese»: una frase netta, che non lascia spazio a fraintendimenti, pronunciata da Gideon Sa’ar, attuale ministro degli Esteri di Israele, nel corso di un’intervista recentemente concessa al quotidiano La Stampa. Con queste parole, Sa’ar ribadisce una linea politica decisamente intransigente rispetto alla questione palestinese, affermando che Israele non accetterà «la nascita di una nazione che possa minare lo Stato ebraico».
Questa posizione si inscrive in un contesto già dominato da tensioni altissime tra Israele e il mondo arabo, e dalla guerra in corso a Gaza, dove ogni decisione sul futuro assetto istituzionale dei territori palestinesi assume un peso strategico e simbolico.
Un rifiuto senza ambiguità
Secondo Sa’ar, la prospettiva di uno Stato palestinese «non è praticabile senza che Israele dia il suo consenso, e al momento non lo dà». Egli richiama la lezione dell’esperienza recente: «Aver lasciato la Striscia ai palestinesi non ha portato né pace né sicurezza», spiega, parlando della fase post‑ritiro israeliano da Gaza.
Il ministro estende poi la sua argomentazione ad altre aree del conflitto: «Se abbandonassimo la Giudea e Samaria (Cisgiordania) cosa che non faremo ci ritroveremmo con “Hamasland” al confine». Parafrasando un leitmotiv che ritorna spesso nel discorso ufficiale israeliano, Sa’ar osserva che uno Stato palestinese oggi «sarebbe lo Stato di Hamas», un’entità jihadista.
In un contesto internazionale dove più di 140 Stati hanno riconosciuto la Palestina come entità statuale (pur con limitazioni pratiche), la sua dichiarazione rappresenta una rottura rispetto ai presupposti della diplomazia mediorientale degli ultimi decenni.
Sa’ar non risparmia critiche alle capitali occidentali: accusa i governi europei di permettere che le loro scelte siano influenzate dalle “popolazioni musulmane” presenti nei loro Paesi, a svantaggio dell’alleanza con Israele. E in un discorso pronunciato negli Stati Uniti ha affermato che imporre uno Stato palestinese a Israele equivarrebbe a un “suicidio” per lo Stato ebraico.
Le ragioni (e le paure) dietro la dichiarazione
Per comprendere la portata delle sue affermazioni, è utile esplorare le motivazioni che emergono dalle dichiarazioni di Sa’ar e da quanto noto nel dibattito politico israeliano:
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Sicurezza prima di tutto
Il timore che uno Stato palestinese possa trasformarsi in uno “stato satellite” di Hamas è al centro dell’argomentazione del ministro. Da quel punto di vista, egli ritiene che una polizia, un esercito o autorità palestinesi possano presto essere dominati da attori ostili a Israele, con conseguenze insostenibili per la sicurezza del Paese. -
Il precedente di Gaza
Sa’ar richiama la decisione israeliana del passato di ritirarsi unilateralmente da Gaza, lamentando che non abbia portato benefici, ma anzi abbia lasciato un vuoto di potere dominato da Hamas. Questa esperienza alimenta la convinzione che simili esperimenti territoriali siano destinati al fallimento. -
Preservare un’identità e uno Stato ebraico dominante
La linea del governo israeliano, così come interpretata da Sa’ar, è che la sovranità ebraica in tutta la “Palestina storica” debba essere preservata, senza che spazi istituzionali autonomi possano limitare o mettere in discussione l’egemonia israeliana. In altre parole, non si tratta solo di sicurezza ma anche di identità politica. -
Il calcolo internazionale e diplomatico
Sa’ar inveisce contro ciò che definisce “pressioni internazionali” per dare vita a uno Stato palestinese a Israele contro la sua volontà. La sua posizione suggerisce che Israele non accetterà diktat esterni su una questione che considera di sua esclusiva pertinenza. -
Tempi, condizioni e prerogative israeliane
In più occasioni Sa’ar ha dichiarato che, in linea teorica, uno Stato palestinese potrebbe essere contemplato in futuro ma solo alle condizioni che saranno poste da Israele e nei tempi decisi dal governo israeliano stesso. In questo senso, il “no” di oggi è soprattutto un “non ancora” rigoroso.
Reazioni e implicazioni internazionali
Il mondo arabo e la diplomazia palestinese
Le autorità palestinesi e numerosi Stati arabi che finora hanno sostenuto pubblicamente la nascita di uno Stato palestinese indipendente vedono nelle dichiarazioni di Sa’ar un atto di chiusura definitiva del dialogo politico. Per i palestinesi, il rifiuto di Israele rappresenta una resa in partenza all’occupazione permanente.
Il fronte europeo
Alcuni governi europei, pur favorevoli alla soluzione dei due Stati come orizzonte ideale, si trovano oggi di fronte a una crisi di credibilità: come spingere per il riconoscimento palestinese quando il governo israeliano respinge categoricamente ogni prospettiva immediata? In Italia, ad esempio, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha dichiarato che – pur considerando la soluzione dei due Stati “uno Stato palestinese adesso non c’è” e che bisogna lavorare al futuro con cautela.
Altri Paesi, invece, potrebbero reagire con nuove iniziative per il riconoscimento unilaterale della Palestina, come già avvenuto in passato. Ciò rischia di generare nuove tensioni diplomatiche con Israele nel breve termine.
Gli Stati Uniti
Il ruolo degli Stati Uniti è cruciale. Da tempo, la diplomazia americana cerca di mediare tra le due parti. La posizione espressa da Sa’ar spinge washingtoniani e mediatori internazionali a ripensare le modalità con cui provare a ridare slancio alla “soluzione dei due Stati”. L’intento israeliano di mantenere il controllo decisivo sul destino dei territori palestinesi rende la mediazione più difficile.
Il conflitto sul terreno
Sul piano pratico, queste dichiarazioni potrebbero consolidare scelte politiche che già si sono manifestate in atti concreti: ampliamento degli insediamenti israeliani, imposizione di controlli più rigidi sui territori occupati, e riduzione delle prospettive di autonomia palestinese, anche minima, nella vita quotidiana.
Uno sguardo storico e le sfide della pace
Il conflitto israelo-palestinese ha conosciuto varie fasi, tentativi di negoziato e piani internazionali: dagli accordi di Oslo alla proposta di partizione del 1947, fino alle risoluzioni delle Nazioni Unite. Nella Dichiarazione di Indipendenza palestinese del 15 novembre 1988, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina proclamò la nascita di uno Stato palestinese sui territori del mandato britannico.
Eppure, fino ad oggi, quell’idea rimane largamente teorica, ostacolata da molti fattori: la continua espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, il controllo sui confini, la questione dei profughi, il riconoscimento internazionale e le divisioni interne fra Fatah, Hamas e altre fazioni palestinesi.
Il recente intervento armato in Gaza dopo il 7 ottobre 2023 ha ulteriormente radicalizzato le posizioni, ampliando le fratture tra chi auspica compromessi e chi ritiene che solo il controllo militare e l’intransigenza possano garantire la sopravvivenza dello Stato israeliano. Le parole di Sa’ar si inseriscono proprio in questa dinamica: la pace come concessione è ormai percepita come un rischio.
Sconfitte diplomatiche o strategiche?
Le affermazioni espresse dal ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar rappresentano una scelta politica severa e drastica: impedire per il momento la nascita di uno Stato palestinese, mantenere la guida assoluta sulla questione territoriale e imporre per ora un blocco definitivo a qualunque riconoscimento fuori dalle condizioni israeliane.
Sarà difficile per il mondo le istituzioni internazionali, i governi arabi, l’Unione Europea, e lo stesso popolo palestinese accettare questo scenario come inevitabile. Ma più delle parole, conteranno le scelte concrete: ampliamento degli insediamenti, politiche di sicurezza, pressione diplomatica e resistenza palestinese.
In fondo, nell’arena mediorientale, ogni dichiarazione è già un atto: quello di Sa’ar va letto come una chiara volontà di ribaltare, o cancellare, le assunzioni fondamentali che hanno nutrito per decenni la speranza di un accordo a due Stati. Il futuro più che incerto è stretto in una morsa geopolitica, dove ogni parola, ogni trattativa, ogni mossa militare può ridisegnare gli equilibri, o congelarli per un tempo difficile da prevedere.











