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Garlasco. L’intervento di Andrea Velardi, filosofo, psicologo e docente Unicusano, a proposito del maresciallo Francesco Marchetto nella puntata di “Incidente probatorio”

 

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Nella puntata recentemente andata in onda del programma televisivo Incidente probatorio, dedicata al caso Garlasco, uno dei delitti più controversi della cronaca giudiziaria italiana, è intervenuto Andrea Velardi, filosofo, psicologo clinico e docente presso l’Università Niccolò Cusano. Il suo intervento ha suscitato notevole interesse, in particolare per l’analisi lucida e articolata delle dichiarazioni e del ruolo del maresciallo Francesco Marchetto, figura centrale nella primissima fase investigativa del caso.

Velardi, da anni attento osservatore delle dinamiche tra giustizia, percezione pubblica e comunicazione, ha voluto soffermarsi su un elemento spesso trascurato nell’opinione pubblica: il peso psicologico e narrativo che le dichiarazioni di chi conduce le indagini assumono nel tempo, soprattutto quando il caso diventa oggetto di attenzione mediatica massiva.

Nel corso della trasmissione, il maresciallo Marchetto è tornato a raccontare i momenti immediatamente successivi alla scoperta del cadavere di Chiara Poggi, ritrovata morta nella villetta di famiglia a Garlasco il 13 agosto 2007. Marchetto fu tra i primi ad arrivare sul luogo del delitto. Le sue prime impressioni, i dettagli da lui raccolti, e soprattutto il modo in cui questi furono successivamente messi a verbale e interpretati, hanno avuto un peso significativo nell’indirizzare l’indagine verso l’allora fidanzato della vittima, Alberto Stasi.

Velardi ha sottolineato come il linguaggio usato da Marchetto nel tempo abbia subito un’evoluzione, forse inconsapevole, ma significativa dal punto di vista psicologico: “C’è una progressiva strutturazione narrativa nei suoi ricordi”, ha spiegato il docente, “come spesso accade in chi è stato testimone o parte attiva di un evento traumatico e, nel tempo, ne ha dovuto ripetutamente raccontare lo svolgimento”.

Secondo il filosofo, questo tipo di narrazione rischia di confondere il confine tra ricordo autentico e costruzione a posteriori. “Non si tratta di mentire, ma di come la memoria si adatti alla coerenza del racconto che noi stessi, e gli altri, si aspettano da noi”, ha detto. Questo meccanismo, secondo Velardi, non può essere trascurato, soprattutto in un contesto giudiziario dove ogni dettaglio può fare la differenza.

Il caso Garlasco, chiuso in via definitiva nel 2015 con la condanna di Stasi in Cassazione, resta tuttavia aperto nel dibattito pubblico, complici anche nuove perizie e ricostruzioni giornalistiche che sollevano interrogativi su possibili errori investigativi.

Nel suo intervento, Velardi non ha preso posizione sulla colpevolezza o innocenza di alcuno, ma ha invitato a riflettere sul ruolo degli operatori dell’ordine nelle prime ore successive a un crimine: “È in quei momenti che si formano le prime ipotesi, le prime convinzioni. E spesso, quelle ipotesi diventano verità processuali difficili da smontare, anche a distanza di anni”.

Il contributo del docente Unicusano si inserisce in un momento in cui l’opinione pubblica dimostra un rinnovato interesse verso la revisione critica dei grandi casi giudiziari italiani. E ribadisce quanto sia necessario, anche fuori dall’aula di tribunale, uno sguardo lucido, multidisciplinare e privo di pregiudizi.

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