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di Giuseppe Lalli

 

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X agosto (1896)

 

San Lorenzo, io lo so perché tanto

di stelle per l’aria tranquilla

arde e cade, perché sì gran pianto

nel concavo cielo sfavilla.

 

Ritornava una rondine al tetto:

l’uccisero: cadde tra spini:

ella aveva nel becco un insetto:

la cena dei suoi rondinini.

 

Ora è là, come in croce, che tende

quel verme a quel cielo lontano;

e il suo nido è nell’ombra, che attende,

che pigola sempre più piano.

 

Anche un uomo tornava al suo nido:

l’uccisero: disse: Perdono;

e restò negli aperti occhi un grido:

portava due bambole in dono…

 

Ora è là, nella casa romìta,

lo aspettano, aspettano in vano:

egli immobile, attonito, addita

le bambole al cielo lontano.

 

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi

sereni, infinito, immortale,

oh! d’un pianto di stelle lo inondi

quest’atomo opaco del Male!

 

 

I versi che precedono, bellissimi e struggenti, sono la rievocazione che Giovanni Pascoli fece di una tragedia che colpì la sua famiglia il 10 agosto 1867, quando lui non aveva ancora dodici anni: l’assassinio del padre in quella solatìa e sanguigna terra di Romagna. I versi raccontano, anzi gridano, il dolore di una ferita che nel cuore del futuro poeta non si sarebbe mai rimarginata, una ferita al costato dalla quale sarebbe sgorgato sangue e poesia. Ciò che più colpisce nella descrizione che l’autore fa del papà che tornava a casa con due bambole in dono per le sue bambine, è l’immagine della rondine che cade tra i spini mentre ritorna al nido con nel becco la cena per i suoi rondinini.

 

Ma i versi non ci rappresentano solo l’intimità di un dolore privato. Essi evocano un dolore universale. Nella notte di San Lorenzo, la pioggia di stelle cadenti assume i tratti di un pianto cosmico che si abbatte sulla malvagità del mondo, definito impietosamente, e senza illusioni, “quest’atomo opaco del Male!”, espressione che ricorda da vicino quella usata molti secoli prima da Dante Alighieri (1265-1321) per indicare dall’alto il nostro pianeta: “L’aiuola che ci fa tanto feroci” (Paradiso, XXII, 151).

 

Giovanni Pascoli, nato a San Mauro di Romagna l’ultimo giorno del 1855 e morto nel 1912 a Bologna, dove era stato chiamato a ricoprire la cattedra di letteratura italiana succedendo a Giosuè Carducci (1835-1907), nella sua non ricca biografia ebbe due eventi rilevanti, decisivi anche in relazione alla sua opera letteraria: l’uccisione, rimasta invendicata, di suo padre mentre lui era in collegio a Urbino, e l’acquisto, seguito al restauro, della bellissima casa di Castelvecchio in Garfagnana, dove il poeta tornò con regolarità, e dove la sorella Maria custodì esemplarmente carte e arredi.

 

La professione di insegnante portò Pascoli in varie città della penisola, ma la Romagna e la Garfagnana furono le sue due patrie elettive, beneficiarie di una intensa e selettiva meditazione. Le sue poesie uscirono per lo più alla spicciolata, in opuscoli nuziali e in varie riviste. Alla tragica morte del padre erano seguiti altri lutti familiari. Giovanni, dopo una socialità franca e generosa che approderà nella militanza socialista e si spingerà fino all’arresto e alla detenzione nel carcere bolognese, si rifugerà negli affetti familiari, nella tenerezza premurosa delle due sorelle minori, Ida e Maria, a cui farà da padre e da figlio. Vivrà nel calore rassicurante del focolare domestico, in quel nido di rondini che l’assassino del padre, come il sasso violento del bambino armato di fionda, aveva violato.

 

È nel tempo ritrovato di queste ovattate atmosfere dell’infanzia e prima giovinezza, in questo microcosmo sempre in pericolo e sempre difeso che rassomiglia alla regressione nel guscio infantile, che vanno ricercate le radici di quella “teoria del fanciullino” che tanta parte ha avuto nella creazione poetica di Giovanni Pascoli. Cerchiamo di spiegarla, questa teoria, che è semplice semplice, come i versi della poesia sopra riportata. Nell’uomo, in ogni uomo, sopravvive un fanciullino, capace di meravigliarsi di fronte al mondo, espressione innocente e pura di una sottile vena poetica che si alimenta della semplicità delle piccole cose.

 

La poesia del Pascoli si rifugia nel particolare poetico quotidiano, colto in quell’umile universo contadino da cui il poeta proviene. È quello del Pascoli un romanticismo che sconfina nel decadentismo, come è stato più volte scritto. Ma che importa? Perché impiccarsi alle parole?  Vicino a Giosuè Carducci, che gli fu maestro a Bologna, Pascoli ci appare il mite vitello di Romagna al confronto col vecchio cinghiale maremmano: quest’ultimo sprizzante vitalità da tutti i pori, il primo timido ed esitante ad ogni passo. Tant’è! Ognuno ha le sue esperienze, a ciascuno la vita presenta i suoi conti; e il valore dell’arte consiste nel saper ricavare dalle proprie vicissitudini un messaggio che abbia valore universale, che trascenda la piccola o grande vicenda che la sorte (o Dio) ci ha riservato.

 

L’arte è sempre realtà filtrata dalla fantasia. Essa coglie l’essenza delle cose molto più e meglio di quanto possa fare l’intelletto con i suoi infingimenti: è intuizione che nasce dalla capacità di meravigliarsi, come accade ai bambini. E che cos’è in fondo la poesia se non una torrida estate che tutto dilata e che non vuol finire, e un’infanzia, con i suoi fantasmi belli e brutti, che non vuol passare? E quando il fanciullino bussa alla porta del nostro cuore e reclama i suoi diritti come il bimbo appena nato il latte materno, noi sempre gli sussurriamo qualcosa di simile a quello che leggiamo nei Canti di Castelvecchio:

 

Nascondi le cose lontane,

nascondimi quello che è morto!

Ch’io veda soltanto la siepe

dell’orto,

la mura ch’ha piene le crepe

di valeriane.

 

La teoria del fanciullino, ci piaccia o no, è la spiegazione più plausibile dell’attrazione che la poesia esercita sul nostro cuore di adulti. È il contrario della teoria del superuomo. Ma non è solo questione di poesia, o di filosofia: c’è dell’altro, ben altro. È scritto da qualche parte: “Se non vi farete piccoli come questi bambini, non entrerete nel regno dei Cieli”.

 

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