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di Enrico Cisnetto

La piena ripresa dopo la pausa estiva ci riconsegna uno scenario politico inalterato, con i difetti ingigantiti dalla ossessiva reiterazione degli errori. Da un lato c’è Draghi, che appare così forte e solido da indurre Ernesto Galli della Loggia a definirlo il De Gaulle (quello della V Repubblica transalpina) italiano. Dall’altro ci sono le forze politiche, tutte coralmente impegnate ad apparire inutili quando non dannose. Tanto da produrre – esse, non la sicurezza con la quale si muove il presidente del Consiglio – una frattura sempre più insanabile tra il Parlamento afono e inerme e il Governo che agisce in autonomia. In mezzo c’è l’esecutivo, che non va oltre la sufficienza, anche perché la maggioranza che lo sostiene non è certo animata da quello spirito di unità nazionale e di convergenza repubblicana di cui abbiamo vagheggiato, eccessivamente speranzosi.

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In questo quadro, da un lato ci sono da affrontare i problemi strutturali e le emergenze – a cominciare da quella Covid, che purtroppo rimane tale nonostante lo straordinario lavoro fatto dopo l’ingresso in campo del generale Figliuolo – e dall’altro c’è da rinnovare la presidenza della Repubblica, cioè l’unica (e ultima) istituzione che ha retto la nostra fragile democrazia, nonostante i colpi ad essa inferti dalla lunga crisi del sistema politico e dei suoi interpreti. Non è un caso che sia sorto e stia ampliandosi un partito trasversale pro “Draghi al Quirinale” con il doppio scopo di andare alle elezioni anticipate – che sarebbe una follia, visto lo stato decozione dei partiti e considerato le cose urgenti e fondamentali che ci sono da fare, a cominciare dal Pnrr – e nello stesso tempo liberarsi della imbattibile concorrenza dell’uomo di governo più forte che l’Italia abbia avuto e potrebbe avere (nelle condizioni date) dalla fine della Prima Repubblica. Così come non è un caso che tutti, chi più chi meno, si sentano legittimati dalle comunali del prossimo 3 ottobre – importanti, per carità, ma pur sempre elezioni amministrative – a cavalcare ogni pulsione populista, compreso quella assai pericolosa dei no-vax o quella subdola dei ni-vax, pur di arraffare (o illudersi di arraffare) qualche voto.

Finora il serafico e insieme risoluto atteggiamento di Draghi, che lascia sfogare leader e leaderini per poi ricondurli ai suoi voleri, ha assorbito ogni spinta centrifuga. Ma, ci si domanda (in particolare laddove si produce pil), per quanto tempo potrà ancora essere così? E, si chiede la grande maggioranza degli italiani, perché l’Italia è costretta a vivere la stridente e potenzialmente mortale contraddizione tra il fatto che mai come ora ci sono state tutte le premesse, a cominciare da ingenti risorse europee, per portare il Paese fuori dal declino strutturale in cui è piombato nell’ultimo quarto di secolo, e mai come ora il sistema politico ha toccato un punto così basso? Domande difficili, cui proverò a dare una risposta articolata sotto due aspetti: le opportunità e rischi che ci attendono, e cosa dovrebbe fare la politica.

 

Finora il fronte più caldo è apparso quello sanitario, nonostante che nei 7 mesi di Draghi il piano vaccinale di massa sia stato il suo maggiore e più brillante successo. Ma da una parte l’incombenza di una ulteriore fase pandemica per via delle nuove e sempre più aggressive varianti del virus, e dall’altra l’offensiva no vax – minoritaria più di quanto non si creda, ma assai rumorosa quando non anche violenta – condita da intollerabili aperture di credito di molti settori della politica, e da inconsistenti discussioni su libertà individuali e libertà collettive, fanno temere che si apra una guerra ideologica sulle politiche sanitarie, di cui proprio non si sente il bisogno. E poco consola pensare, come faccio io, che battere questa strada rappresenti un seminare vento che farà raccogliere tempesta. Parlo in particolare di Salvini, cui non giova il continuo oscillare tra la posizione estremista che è propria di taluni della Lega e quella moderata e pragmatista di altri: alla fine avrà scontentato entrambi i fronti elettorali e non si sarà costruito a sufficienza l’immagine dell’uomo di governo.

 

Non sembri strano visto l’ottimismo (improprio) che circola, ma a mio giudizio ora la partita decisiva torna a giocarsi sul terreno dell’economia. A trarre in inganno sono le previsioni di crescita relative all’anno in corso, che si sono ormai quasi tutte attestate intorno al 6%. Ma una cosa è il rimbalzo dopo la caduta verticale del pil dello scorso anno (9%) e altro è lo sviluppo stabilmente sostenuto. Non è un caso che l’Ocse nel rapporto “Economic Surveys” dedicato all’Italia, rispetto alle sue stesse previsioni di fine maggio abbia sensibilmente migliorato le attese per il 2021 (da +4,5% a +5,9%) ma abbia peggiorato (da +4,4% a +4,1%) quelle per l’anno prossimo. Tuttavia, pur dando per scontato che nel biennio ’21-’22 l’Italia sarà in grado di assorbire completamente (o anche qualcosa di più) l’effetto devastante procurato dal Covid all’economia, l’anno decisivo sarà il 2023. Considerato che ci sono almeno 10-12 punti di pil da recuperare ulteriormente – tra quanto ancora manca per tornare ai livelli di reddito nazionale pre crisi del 2008 e seguenti, e il gap strutturale rispetto ai maggiori competitor europei che bisogna pur cominciare a colmare – o continuerà la tendenza ad una crescita sostenuta, diciamo almeno al 3% annuo, o torneremo non dico alla stagnazione degli “zero virgola” ma agli asfittici tassi di sviluppo intorno o poco sopra l’1%? Siccome le cose non accadono per caso o per magia, basterebbe fare l’elenco di quante e quali riforme, o anche semplici scelte, occorrerebbe fare perché accada l’una o l’altra delle due ipotesi, per rendersi conto di cosa significhi avere un governo, e di conseguenza un sistema politico che funzioni.

 

Galli della Loggia sostiene, con ragione, che Draghi stia dando vita ad un semipresidenzialismo sui generis, che arieggia per l’appunto quello della V Repubblica gollista, in cui il mandato formale a governare dipende dalla maggioranza parlamentare che lo sostiene, ma quello sostanziale lo trae da un’altra fonte, che l’editorialista del Corriere della Sera chiama “la volontà del Paese”, che i partiti accettano volontariamente sapendo l’ininfluenza del loro eventuale dissenso. Ecco perché, per esempio, le fughe in avanti di Salvini appaiono inutili, tant’è che durano lo spazio di un mattino e presuppongo sempre un ritorno all’obbedienza. D’altra parte, è pensabile che oggi qualcuno, di fronte agli italiani che nella loro grande maggioranza pensano che finalmente il governo del paese sia finito in mani giuste e forti, salvo suicidarsi politicamente possa davvero minare i binari su cui cammina questo governo? Ma neanche Conte, che pure darebbe un braccio e una gamba pur di vedere crollare miseramente quello che considera un usurpatore che gli ha rubato il posto, osa veramente mettersi di traverso. Si dirà: ma un “cambio di regime” di questo genere, che non deriva da una puntuale e condivisa revisione della Costituzione, non sembra sano, ancorchè dettato da un evidente stato di necessità e pur essendo sorvegliato dalla vigile prudenza istituzionale del Capo dello Stato. Formalmente vero. Ma c’erano e ci sono alternative? La politica italiana, per riprendere a funzionare dopo quasi tre decenni di blackout, ha bisogno di ben altri copioni che quello della riproposizione di uno sgangherato bipolarismo “Pd-5stelle” da una parte e “FdI-Lega-Forza Italia” dall’altra, che sarebbe meglio chiamare “bipopulismo”. Con le due alleanze logorate dalle profonde contraddizioni che le attraversano. Sul fronte del cosiddetto centro-sinistra, l’asservimento suicida del Pd all’accordo a tutti i costi con chi, i 5stelle, ha mostrato di essere totalmente (salvo rarissime eccezioni) privo di cultura di governo e si è talmente squagliato nel momento in cui è venuto a contatto con il potere da mettersi nelle mani di un ologramma come l’avvocato Conte, fa sì che questa alleanza, configurata per fare opposizione, non avrà il consenso sufficiente per guidare il Paese. Ma questo non significa che automaticamente sarà il centro-destra a uscire vincitore dalle urne, o comunque a dimostrare di poter governare. Lo dimostrano la quotidiana distanza che si misura tra quelle tre forze – a cominciare dal fatto che due sono partecipi della maggioranza che sostiene Draghi e una è all’opposizione – e la difficoltà a mostrare al Paese uno straccio di classe dirigente, come si è visto con le debolissime candidature messe in campo per le grandi città che andranno al voto. D’altra parte, questo governo rappresenta un confine netto e inequivoco rispetto al populismo, al sovranismo e al giustizialismo, e per il trio Salvini-Meloni-Berlusconi non sarà facile “vendere” agli elettori una coalizione tenuta insieme da una comunione d’intenti che non esiste proprio al cospetto di quelle linee di demarcazione.

 

I prossimi appuntamenti elettorali ci daranno conferma di tutto questo. Sono pronto a scommettere che alle amministrative si dovrà ricorrere in quasi tutte le circostanze ai ballottaggi, cosa che significa mancanza di proposte forti e convincenti, e che alle politiche nessun partito supererà il 20%, proprio perché l’offerta è debole in sé e ora questa debolezza risalta ancor più se confrontata con il pragmatismo di Draghi.

Per tutte queste ragioni, non solo è bene che l’attuale inquilino di Palazzo Chigi rimanga dov’è fino al termine della legislatura, ma è indispensabile che nel frattempo ci si ponga il problema di che fare in quel 2023 che, come ho detto, sarà la vera cartina di tornasole per capire se l’Italia sarà in grado di lasciarsi il declino alle spalle, o seppure ci ricadrà dentro, facendosi molto male. Nell’ultimo numero di TerzaRepubblica prima della pausa estiva davo alcuni spunti su come la nostra geografia politica potrebbe ridisegnarsi (qui il link alla newsletter n. 30). Nei mesi scorsi ho scritto della necessità di un profondo cambiamento istituzionale e ho indicato quale potrebbe essere lo strumento per realizzarlo (qui il link alla newsletter n. 20). Saranno i temi che affronteremo prossimamente. Ben ritrovati.

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