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UN VOTO DI RIFORMA PARTA DAL SI AI REFERENDUM

di Domenico Bilotti

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Il nuovo corso inaugurato dalla attuale composizione della Corte Costituzionale sembra tutto fuorché nuovo: nuovo è forse nella apparente inopportunità delle forme linguistiche (dichiarare un criterio sostanzialistico e poi indire una conferenza per smentirlo) ma non nella materialità delle questioni intraprese. La Corte Costituzionale ha in effetti espunto dal dibattito collettivo, dietro il prisma della inammissibilità, tre temi che avrebbero mobilitato la carne del discorso comune: eutanasia (anche se la modifica referendaria non riguardava esattamente l’introduzione dell’istituto), cannabis legale e responsabilità civile dei magistrati. Restano invece in piedi le cinque questioni che pur non mobilitando la stessa attenzione  meritano in realtà il massimo interesse.

Col primo dei quesiti in corso, verrebbe abrogato l’obbligo per il magistrato che voglia essere eletto di trovare tra le venticinque e le cinquanta firme a suffragio della sua candidatura, nel massimo organo rappresentativo. Essere membri del Consiglio Superiore della Magistratura è una responsabilità di carattere anche deontologico che dovrebbe partire dai programmi della propria operatività d’azione, non dalla capacità di mobilitare un sostegno iniziale chiaramente di matrice correntizia. Prima del 1958 era così: e un conto è credere che il libero associazionismo professionale funga da vettore per una candidatura, ben altro è che esso sia obbligante, escludente per le scelte dei colleghi e subordinato al loro beneplacito per le scelte proprie. Una competizione estesa fuori dai vincoli dell’equilibrismo interno potrebbe forse portare molta temerarietà (da scoraggiare) ma anche ben più diffusa trasparenza (da incentivare).

Con l’altro quesito si avrebbe lo scopo di includere nella deliberatività di autodichia l’apporto valutativo di membri “laici” – e già tale dicitura in fondo spaventa, perché la laicità qui torna al suo senso etimologico di afferenza a un limite, a un recinto – quali professori e avvocati. Rispetto al buon uso ed esercizio della giurisdizione, la categoria forense e quella accademica, come avviene nelle commissioni per gli esami da avvocato, non sono appendici da circoscrivere, ma interlocutori sostanziali di un processo che in primo luogo vuole avere un significato qualitativo, persino poi in concreto non lo abbia fino in fondo. Chi fa diritto e giurisdizione in un Paese democratico è ospite in terra straniera? È forse un amico indesiderato in una tavola già apparecchiata o invece l’auspicata sinergia tra dottrina impartita, sua applicazione casistica e sua messa sotto pressione nel quadro della difesa è la quintessenza della vera democrazia introiettata al potere giudiziario?

Anche il tema della separazione delle carriere, tra giudicanti e inquirenti, è trattato con un allarmismo perbenista e in fondo giustizialista e classista tra i suoi detrattori. È sin troppo ovvio che il buon magistrato, ferrato, qualitativamente accorto e rispettosamente incline ai perimetri dettati dalla sua funzione, abbia almeno potenzialmente la capacità di assorbire le acquisizioni cognitive dell’uno e dell’altro campo del procedimento penale. Qui, però, è in discorso un tema di diversa natura: che una scelta vada effettuata, che non possa esservi un corridoio permanente tra chi fino all’altro giorno accusava e chi all’indomani è chiamato a discernere le ragioni di chi accusa e di chi difende. Soltanto nei sistemi involuti, si pesca dallo stesso registro il boia quanto il garante e, se democrazia liberale è, quindi non esiste né boia di professione né garante per mestiere, bisogna almeno selezionare la carriera di afferenza per cui si sceglie di aderire a un percorso personale. Attenzione, senza le aprioristiche barriere divisorie che vorrebbero estremizzare alcuni dei promotori, ma quantomeno indicando delle linee tendenziali, per cui quel corridoio non sia sempre e solo detrimento delle ragioni del più debole.

Ci sembrano ancor più universalmente apporzionabili gli ultimi quesiti sul piatto. Limitare la carcerazione preventiva è quello che indefessamente da tre decenni ci chiedono di fare tutte le giurisdizioni internazionali sui diritti umani: la custodia cautelare è istituto coerente al dettato costituzionale se nel bilanciamento degli interessi e dei diritti lascia integre libertà fondamentali ed esigenze di pubblica sicurezza. Il tema della possibile “reiterazione del medesimo reato” ci ha mostrato nei fatti, nel bruto concreto dei fascicoli che investono menti e corpi, una strategia cautelare che poco ha di preventivo e molto di repressivo: anticipazione violenta di condanne non scritte e forse nemmeno da scrivere.

L’ultimo quesito, sul decreto Severino, dal nome della ex ministra che pure bisogna dire non ha saputo dare un orientamento univoco all’ordine di riforma dettato dalle urgenze dei tempi, smantella un automatismo che nella pratica, per chi bazzica e suda il diritto ogni istante della propria vita, aveva invero molto di discrezionale. È necessario torni il giudice (proprio il giudice, altro che referendum antigiudiziari!) a discernere se per quella condanna l’aspirante debba subire o meno l’interdizione dai pubblici uffici. Come invochiamo da anni sull’ergastolo ostativo, sia un giudice a pronunciarsi lì sull’esperibilità dei benefici di pena – non esattamente “vacanzieri” – e qui sulla conseguibilità di una candidatura: non il verbo di una norma che soddisfa pochi palati, sazia molte paure e denega tanta giustizia.

Un voto riformista è un voto di assenso a cinque quesiti: notiziano il mondo del dovere di un dibattito comune, perché è per tutti la necessità di rimodulare quanto non ha funzionato, travolgendo i principi di giustizia in casi chiarissimi di manifesta ingiustizia.

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