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Il digestivo

di lorenzo merlo

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La società dello spettacolo è un concetto. Ultimamente – e giustamente – lo si trova citato con una certa frequenza. Quella formula è dovuta ai situazionisti (1), in particolare a uno dei fondatori di quel movimento culturale, Guy Debord, che ne fece il titolo di un suo libro (2). Ciò che abbiamo visto in questi ultimi, tragici, tempi è una conclamamazione di quanto anticipatoci dai situazionisti.

 

L’equazione hegeliana tra realtà e razionalità è sostituita dall’equazione tra apparenza e valore” (3).

 

Aperitivo

Diversamente da come viene spesso intesa e impiegata, con società dello spettacolo non si allude ad una realtà pregna di spettacolarizzazione della vita attraverso trasmissioni tv, siano esse di informazione, lungometraggi, sedute di parlate addosso e finzioni; programmi dedicati al pubblico, al privato e all’intimo, al giornalismo piallato agli interessi del padrone e al politicamente corretto. Per non parlare dell’umiliante imposizione della pubblicità – vera pornografia culturale –, nonché degli ammiccanti corpi impunemente sdoganati dall’ipocrita morale che obbliga un cieco ad essere un non vedente e un omosessuale a non essere un frocio, a criminalizzare chi dice negro o puttana, salvo lasciare chiunque, in questo caso Emma Marrone, cantare, giustamente impunita:

E ogni volta è così, ogni volta è normale

Non c’è niente da dire, niente da fare

Ogni volta è così, siamo sante o puttane

E non vuoi restare qui, e neanche scappare

senza timore che nessuna neobigotta bacchettata le colpisca le falangi. Bisogna dire non vedente, diversamente abile e usare il gender giusto, abbinato a opportuni neolemmi e neoaggettivi, appositamente composti da neolettere. Se dici cieco, handicappato e finocchio vai nel regno del proibito, quello degli uomini che vivono nel mondo sbagliato. E allora che i diversamente fighi siano i gobbi.

 

La vera “offesa alla nostra sensibilità” non sono i corpi sfracellati di una guerra, ma la fornitura di armi e denari, mezzo raccapricciante con il quale lor signori vogliono la pace.

La società dello spettacolo realizza il suo culmine nel rendere attendibile di verità la realtà ad hoc rappresentata. Essa – condivisa, sociale, politica – si mostra in forma di spettacoli e situazioni appositamente messe in scena e viene assunta come la Realtà, al pari di una merce e anche di un suo surrogato. Il dietro le quinte che la genera è dimenticato. Quando capita che venga preso in considerazione da qualcuno, questo lato occulto ai più non riesce a scalfire la realtà che l’ha preceduto e che è stata scambiata per la sola attendibile. In altre parole, ma sempre referenti della magia del linguaggio, i situazionisti possono essere considerati in qualche misura gli antesignani di quanto ci racconta la Programmazione Neuro Linguistica, il Costruttivismo e non solo.

 

In quanto indispensabile ornamentazione degli oggetti attualmente prodotti, in quanto esposizione generale della razionalità del sistema, e in quanto settore economico avanzato che foggia direttamente una moltitudine crescente di oggetti-immagine, lo spettacolo è la principale produzione della società attuale” (4).

 

Se la realtà è, dunque, ciò che i media e social diffondono in modo ormai capillare, è facile e spontanea l’equazione che esiste ciò che in essi appare. Null’altro. O quasi. Ciò che essi fanno insistentemente esistere assume un’attendibilità di verità maggiore della realtà assente nello schermo tv, nonché di quella proveniente da fonti meno accreditate. Uno, perché il punto di attenzione è prevalentemente posato sulla realtà rappresentata o spettacolo; due, perché quella rappresentazione è corredata di orpelli e ghirlande, ovvero di esperti e specialisti. Di qualcosa che, ce lo hanno inculcato, in quanto latori di dati o erudizione superiore, è senza dubbio alcuno attendibile a noi. Genuflessione. Le vicende della protopandemia, del suo attuale seguito e, successivamente, della guerra in Ucraina ne sono un cristallino campione. Il megafono istituzionale a mezzo media d’informazione narra una verità interessata e colma di menzogne che, mediamente, risulta convincente per tutti.

 

Cena

Gli intellettuali untori del potere al mercato e del pensiero unico hanno evidentemente modificato il dna. La loro originaria ontologia appuntita ha ora la forma piatta dello scendiletto, la loro felinità perduta li ha mutati in bolsi animali d’allevamento. E le università non credano di potersi sottrarre a tanta sottomissione, ad altrettanto rinnegamento della missione, ormai venduta più che perduta.

Nel calderone dell’audience, che è lo stesso del profitto, si può buttare tutto. La ricetta resta una sola. Ci stanno anche il prezzo e il valore. La lunga cottura li ha spappolati, rendendo impossibile riconoscerli, dispersi e mescolati agli archeoantropologi, avranno vita difficile nel ricostruire ciò che è stato e ancora di più nel rispondere alla domanda perché lo hanno fatto? E non sarà un episodio isolato. Esso si ripeterà identico a proposito delle leggi umane e di quelle naturali. Come hanno potuto credere di poter comprimere loro stessi entro le logiche ondivaghe della politica e dimenticare quelle ferree della natura?

In attesa che il tempo passi e che quei ricercatori arrivino a porsi quelle domande, una risposta è già possibile oggi. L’accredito delle élite, del loro verbo, la reverenza culturale di cui godono e di cui si fanno vanto, l’assenza di critica dal basso o, quando presente, la criminalizzazione di questa, trattata al pari di brigatisti da eliminare con idranti o da misconoscere quando non ignorare, rappresentano l’humus culturale, terreno sul quale hanno saputo erigere un vero muro di estraneità. Da una parte loro, dall’altra noi. Non più coccolati latori di voto, ma fastidi da gestire. Il progresso e Bruxelles lo impongono, loro eseguono. Così diranno in un’ipotetica Norimberga che giudichi i tempi. “Eravamo soltanto esecutori di ordini”.

Si arriverà al punto in cui forse nessuno ammetterà mai nulla. Il tempo passerà e sentiremo allora citare quest’epoca come si fa con i peccati che ancora si vogliono fuggire. Sentiremo – noi o chi per noi – battute e risatine per far passare la nefandezza alla quale abbiamo assistito come un fatto risibile, una cosa come un’altra. Finché chi non c’era non potrà che dubitare della nostra narrazione, “così simile ad altri negazionismi”. E saranno ancora i “medici no-vax ad aver ucciso” e sarà stato il vaccino ad aver “salvato il mondo” dalla pandetruffa. E non saranno stati compiuti soprusi, né ricatti istituzionali e anticostituzionali. Chi ha la comunicazione ha tutto il potere che serve. Come sennò proclamare menzogne e far credere si trattasse di “slogan”?

Hanno creato i no-vax (senza considerare di offenderli con questo titolo), hanno detto Ucraina democratica – e non sapevano niente di cosa ci fosse stato prima del 24 febbraio –, hanno sottratto a cittadini russi il loro diritto al lavoro, alla dignità, alla proprietà. Vuoi che chi ha la consapevolezza di quanto certa politica e certa comunicazione da spettacolo hanno prodotto non trovi come criminalizzare anche chi vede in essa la demolizione delle identità individuali (quelle nazionali sono in opera da tempo) e, con esse, la stabilità delle persone? Saremo ancora fascisti? Razzisti? Omofobi? Stupidi? Ci toglieranno il lavoro se rifiuteremo di abbracciare lo scempio? Azzereranno la nostra futura tessera della vita a punti se non ci allineeremo al loro progresso?

La questione dei diritti non c’entra niente. Chiunque sia come crede di essere, senza incertezze. Non è quella in corso la via per educare al rispetto, anzi l’obbligo ne realizza l’opposto. Quel nobile scopo non ha a che vedere col demolire storia, cultura, identità. Sennò facciamo anche il mondo di mancini, artisti, reduci, eccetera.

 

Se l’avevano visto i situazionisti già dal finire degli anni ’50 del secolo scorso, se Foucault, con l’Ordine del discorso del 1971, l’aveva a suo modo ribadito e ulteriormente argomentato, accreditare, oltre noi stessi, la parola dell’esperto è esattamente appenderci la carota davanti al naso e inseguirla. È credere acriticamente. Una acritica che viene in essere e a fa sparire il mondo circostante, tanto più la nostra attenzione è fissa sul punto che serve agli imbonitori, venditori, truffatori che siano. E così si ribaltano verità storiche senza che nessuno reagisca, con il consenso informato di tutti quelli che sono più disponibili a dire che la storia va avanti piuttosto che riconoscere che la storia è una sequela di scelte umane.

 

La politica e le sue élite, alle quali tanto diamo credito, vivono dunque in un mondo a parte, senza più alcuna relazione diretta con noi. Se in grande misura, la deriva non costituisce un problema per il popolino fantozziano, quello con il gruzzoletto raccolto in anni di nero e anche quello con il miraggio della BMW. Per altri può essere tradotto con “non mi sento rappresentato da nessuno”. Parole che contengono un sentimento in crescente diffusione.

Ma se il malcontento, il disagio, la povertà, le difficoltà sono, come quel sentimento, in espansione, oggi in grado di interessare fasce di popolazione via via più spesse, come mai si sta tutti buoni e zitti?

 

Digestivo

Un effetto della spettacolarizzazione è la digestione. Così, il comico sul palco, la satira in un articolo e anche il sarcasmo in una vignetta sono lame che vorrebbero ferire il potere – istituzionale, politico o mediatico – ma che, di fatto, sortiscono altro, in un certo senso l’opposto. Battute, sberleffi, prese in giro, critiche da applauso sono in primis un digestivo che permette di trascendere dal tragico del reale per renderlo compatibile con la vita, fino a trasmutarlo in ordinarietà. Il peso politico di un giullare – apparentemente non di corte – è nullo. Quello che aveva il re svolgeva il medesimo servizio. Permetteva al sovrano di udire critiche ai suoi misfatti, altrimenti impronunciabili e indicibili. Era già allora la messa in atto del trucchetto del comico. Giravolta indispensabile affinché le malefatte potessero uscire dall’alambicco di una risata come cosa giusta e dovuta, disumanizzata, anche ricca di lacrime, ma – questo è il punto – senza più il potere morale del senso di colpa.

 

Con lo spettacolo, la realtà passa come passa una trasmissione. Viene più facilmente deglutita e digerita, a maggior ragione se di comicità, parodia e satira si tratta.

A causa del piacere della risata o della solidarietà che sentiamo venire a noi da una battura satirica che ci sottrae dalla solitudine, il reale diviene, senza colpo ferite e senza necessità di trait d’union, lo spettacolo.

Dal divano non è diverso da quanto era dall’arena per i romani, pronti a cliccare il pollice su o ad astenersi, per poi cambiare canale e continuare la digestione.

 

Così, lo spettacolo, trovato il campo lasciato libero dagli intellettuali, offre pure la prova del nove ­solo a chi è in grado di vederla.  La poesia è radicalmente esclusa dalla monade della società dello spettacolo e con lei il principio di bellezza, nonostante siano due sintomi della vita vera, quella a cui tutti aspirano nei propri sogni. Da questi si è senza reazione passati alla povertà spirituale e, soprattutto, ad accettarla come normalità, anche da difendere. Della dipendenza, dell’assuefazione, della voracità animalesca che fanno di noi il cibo di pochi, del flusso che ci trascina via da ciò che conta e che ci spinge a nutrirci di effimeri valori, la società dello spettacolo non si occupa. Le resterebbe tutto sullo stomaco.

 

La realtà sorge nello spettacolo e lo spettacolo è reale. Questa alienazione reciproca è l’essenza e il sostegno della società esistente” (5).

 

 

 

Note

 

  1. Fondatori dell’Internazionale Situazionista, 1957: Pinot Gallizio, Piero Simondo, Elena Verrone, Michèle Bernstein, Guy Debord, Asger Jorn, Walter Olmo. È un movimento nato in Italia.
  2. Guy Debord, La società dello spettacolo, Milano, Baldini&Castoldi, 2008.
  3. Ivi, p. 55.
  4. Ivi, p. 57.
  5. Ivi, p. 13.

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