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MELONI CAMBIA IDEA? BENE

MA NON SI PUÒ VIVERE DI

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“POSITIVE CONTRADDIZIONI”.

E QUESTO VALE ANCHE PER IL PD
“Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”. O meglio, “beato il popolo che non ha bisogno del cambiamento di idee”. Viene da parafrasare Bertold Brecht nel momento in cui si è costretti vedere i voltafaccia di chi andando al governo – per fortuna – fa il contrario di quanto aveva detto per conquistarsi quel consenso che gli ha consentito di vincere le elezioni. L’ultimo esempio è quello delle accise sulla benzina, che rappresentano per lo Stato una rilevante di introito fiscale. Giorgia Meloni e il suo partito nella campagna elettorale avevano promesso la loro cancellazione, o quantomeno una forte riduzione, qualora gli elettori gli avessero aperto le porte di Palazzo Chigi. E questo senza che fosse minimamente indicato con quale taglio di spese si sarebbero finanziate quelle minori entrate. Naturalmente, sarebbe un’assoluta forzatura sostenere che il voto del 25 settembre scorso è andato come sappiamo per via di quella promessa. Allo stesso modo, non si può nemmeno far finta di niente. Non fosse altro perché, al di là delle accise, di quel tipo di promesse elettorali sono piene le cronache. Sta di fatto che una volta arrivata al governo, Meloni ha dovuto prendere atto che non c’era alcun spazio per un intervento del genere, e tra rimangiarsi la parola e mettere in pericolo i già precari equilibri della finanza pubblica, ha imboccato la prima strada. Fortunatamente. E qui stiamo parlando di un intervento che, almeno in via teorica, poteva essere giusto, visto che in Europa nessun paese quanto l’Italia carica sul prezzo dei carburanti tante tasse. Figuriamoci, poi, quanto valgano i “voltafaccia” rispetto a posizioni profondamente sbagliate, come essere favorevole all’uscita dell’Italia dall’euro (Meloni 2014) o propugnare il Sì al referendum abrogativo sulle trivellazioni (Meloni 2016).

 

Ho fatto riferimento alle “positive contraddizioni” dell’attuale presidente del Consiglio perché sono quelle sotto i riflettori, ma naturalmente potrei stendere un lungo elenco di analoghe situazioni riguardanti sia gli altri partiti della maggioranza, sia quelli delle opposizioni. Per tutti, basti pensare ai clamorosi cambiamenti genetici dei 5stelle, passati senza vergogna dal rifiuto della politica, dei suoi riti e relativi privilegi – demagogia su cui hanno costruito la loro fortuna elettorale – alla pratica dell’opposto, nella quale hanno raggiunto livelli a cui nemmeno i peggiori democristiani di un tempo si sarebbero sognati di arrivare.

 

Ma è sano un sistema politico che deve affidarsi al rovesciamento tra quanto si dice in campagna elettorale e quanto si fa al governo? Decisamente no. È maturo un elettorato che si fa ripetutamente abbindolare da parole d’ordine pescate nello stagno putrido del populismo, e che ha saputo trovare come unico antidoto a questa cattiva abitudine il “bruciare” con sempre maggiore velocità e frequenza le leadership dei pifferai magici? Decisamente no. È pensabile che un paese ultra indebitato possa dividersi non, come sarebbe logico, sulle ricette di come ridurre il proprio squilibrio finanziario o come aumentare il proprio pil, ma solo ed esclusivamente su quante risorse distribuire, come e a chi? Decisamente no. Eppure, questa è la nostra realtà. Non c’è nessuno, a destra come a sinistra, che abbia uno straccio di progetto Paese e che indichi le scelte che bisogna fare per attuarlo, fermi restando i mille vincoli di partenza. Si vota chi ha più decibel e capacità di attingere alla retorica, si governa cercando di realizzare il meno possibile di quanto si è detto per prendere quei voti. Si tratta di una modalità opportunistica di organizzare il rapporto tra cittadini e politica che procura un enorme danno strutturale di cui pochi vedono la portata e le conseguenze.

 

Come hanno mirabilmente scritto Michele Salvati e Norberto Dilmore sul Mulino, “l’Italia è bloccata in una palude di problemi strutturali per affrontare i quali sono necessarie riforme profonde (e io aggiungerei coraggiose) che in alcuni casi richiedono più mercato e concorrenza per smantellare un capitalismo relazionale (e io aggiungerei parassitario) che blocca la crescita del Paese, mentre in altri richiedono più Stato, con la parallela adozione di criteri di merito e produttività, se si vuole evitare più clientelismo ed inefficienza”. Ma per far questo occorrerebbe capacità di analisi e di proposta, collegando bene la seconda alla prima, coraggio nel proporle ai cittadini e disponibilità di questi ultimi ad ascoltare. Invece si preferisce la scorciatoia del “tutto a tutti”, per poi usare la leva delle “positive contraddizioni”. Così ha fatto Fratelli d’Italia che si è fatta largo contestando il governo Draghi con argomenti sovranisti (ma anche Lega e Forza Italia non sono stati da meno, anzi, pur appoggiando l’esecutivo dell’ex presidente della Bce) per poi fare una politica non diversa da quella del predecessore, anche a costo di rispettare solo in minima parte la propria agenda, per evitare di diventare l’ennesima meteora della politica italiana.

 

E così sembra voler fare, reiterando gli errori del recente passato, il Pd. E, attenzione, paiono cadere in questa maledetta trappola non solo le componenti di sinistra del partito che si appresta a celebrare il più surreale dei suoi congressi, ma anche quelle riformiste. Anzi, non me ne vogliano Salvati e Dilmore, le prime sembrano essere perfino più coerenti delle seconde. Ammaestrata da Goffredo Bettini, la sinistra ma anche le componenti del Pd più ciniche e “governiste” (intese come attaccate al potere purchessia) sostengono l’ineluttabilità dell’alleanza con i 5stelle di Conte, salvo dire che una volta tornati al governo ci penseranno loro a imporre il realismo e il pragmatismo necessari. Ergo, usiamo i professionisti del populismo – visto che noi abbiamo perso il contatto con il popolo – per vincere le elezioni e poi faremo quel che sarà necessario. È, mi par di capire per quel pochissimo che di costei si capisce, la posizione della candidata radical-chic alla segreteria del Partito Democratico, Elly Schlein. Viceversa, il fronte che appoggia Stefano Bonaccini non pensa che Conte sia la punta più avanzata del progressismo italico, ma neppure nega di doverci convivere per il semplice motivo che continua ad ispirarsi al principio “veltroniano”, che fu fondativo del Pd, del “partito a vocazione maggioritaria”. Il quale comporta sì che alle elezioni il Pd debba presentarsi in quanto tale e non come parte di una coalizione, ma comporta anche che facendo propria la versione maggioritaria del sistema politico sia capace di vincere da solo. È pensabile? Escluderei. E siccome è anche escluso che qualsiasi altra forza politica possa riuscirci, sarebbe opportuno che i riformisti – così come i moderati sull’altro fronte, che latitano perché siamo di fronte al paradosso che la Meloni lo sia molto più di Salvini e persino del “putiniano” Berlusconi) – superassero questo dogma. Perché è proprio la contrapposizione bipolare – tanto più da quando è diventata bipopulista – che ha creato il fenomeno che abbiamo chiamato approccio “opportunistico” alla politica: alleanze pur di vincere e poi passare il tempo – che è un bene prezioso visto l’incalzare dei problemi e il moltiplicarsi della loro complessità – a mediare tra promesse e buon senso, oltre che tra alleati distanti mille miglia tra loro. Viceversa, rinunciare al vincolo maggioritario aiuterebbe a predisporsi verso gli elettori con un sano realismo politico, che poi consentirebbe di non doversi sottoporre al mortificante meccanismo delle “positive contraddizioni”.

 

Purtroppo, ascoltando su Radio Radicale l’assemblea di LibertàEguale, l’associazione dei riformisti di sinistra presieduta da Enrico Morando, ho notato che a fianco alla giusta proposta che il Pd abbandoni le “coalizioni contro” permane l’idea del partito a vocazione maggioritaria. Vorrei allora far presente a miei amici Morando e Salvati quanto mi ha raccontato qualche giorno fa Fausto Bertinotti. Invitato da Bettini ad andare a presentare il suo libro, l’ex presidente della Camera di fronte ad un’affollata platea di militanti del Pd non si trattiene dal dire che secondo lui la cosa migliore che potrebbe fare il Pd in questa fase congressuale è praticare l’autoscioglimento. Pur dicendolo con garbo, teme che la sua uscita provochi reazioni polemiche. Invece, con suo grande stupore (e, suppongo, la stizza di Bettini) scatta un interminabile quanto fragoroso applauso. Segno che anche la stessa base Democrat non ne può più.

 

Io mi ero permesso di suggerire la nascita di due partiti, uno che raccolga tutte le radicalità della sinistra e l’altro che unisca i riformisti che sono dentro e fuori dal Pd. Sarebbe il modo migliore per costringere anche Giorgia Meloni a fare i conti con le contraddizioni che albergano nel centro-destra. E per dare al Paese un governo che non sia costretto a vivere del realismo prodotto dai ripensamenti.

 

 

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