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Paolo Battaglia La Terra Borgese: 22 Dicembre 1823, Fabre, Un Impareggiabile Osservatore Animalista

 

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Voi sventrate gli Animali e io li studio vivi. Voi ne fate oggetto di orrore ed io li faccio amare. Voi lavorate in un laboratorio di torture ed io osservo sotto il cielo azzurro al canto dei grilli e delle cicale. Voi sottomettete ai reattivi il protoplasma e le cellule ed io studio l’istinto in tutte le sue manifestazioni. Voi scrutate la morte ed io analizzo la vita. Se io scrivo per gli scienziati e per i filosofi, che un giorno tenteranno di dipanare l’arduo problema dell’istinto, scrivo anche per i giovani ai quali desidero di far amare questa storia naturale che Voi riuscite solo a far odiare.”

La frase che avete appena finito di leggere – ci dice Paolo Battaglia La Terra Borgese – è tratta da “Ricordi di un entomologo” di Jean Henri Casimir Fabre.

 

A 200 anni esatti dalla sua nascita, nel periodo dell’anno in cui maggiormente i CIRCHI CON ANIMALI, con i loro manifesti (per lo più abusivi), oltraggiano e ubriacano le nostre città, non potevamo privarci di celebrare il grande Fabre.

 

«In nome della legge, vi arresto!»

 

L’uomo anziano steso a pancia in giù nella polvere, che tutti avrebbero confuso con un vagabondo addormentato, scattò in piedi e, trovatosi di fronte alla guardia del villaggio, chiese con garbo la ragione del suo arresto.

 

«Sono stato a guardarvi. Siete un tipo sospetto! Seguitemi.»

 

Come un maestro paziente l’uomo spiegò che stava studiando gli insetti.

 

«Mosche!» disse con scherno il gendarme. «Vorreste farmi credere che stavate sdraiato sotto il sole cocente a guardare le mosche?»

 

L’altro si strinse nelle spalle e la luce cadde su una rosetta di nastro rosso all’occhiello della giacca logora: la Legion d’Onore. Anche una guardia di campagna capiva che era il caso di ritirarsi, ora. Imperturbabile, il vecchio si sdraiò di nuovo per riprendere i suoi studi.

 

Jean Henri Casimir Fabre era abituato alle umiliazioni. Fin dall’infanzia aveva nascosto la sua natura sensibile dietro una maschera d’indifferenza. Era nato nel 1823 in un villaggio della Francia centromeridionale da una madre analfabeta; per di più la madre considerava l’amore del figlio maggiore per i campi un’indolenza colpevole e la sua passione di raccogliere minerali, nidi di uccelli e scarafaggi un sintomo d’idiozia.

 

Il padre di Henri faceva il contadino, ma era uno scontento, un uomo mancato. La vita dei Fabre trascorse fra debiti e affanni.

 

Per avere una bocca di meno da nutrire, Henri fu mandato a cinque anni in campagna dai nonni, gente semplice, attaccata alla terra. Questi lasciarono che crescesse come voleva. Il suo orecchio coglieva il gracidare dei ranocchi, lo stridio dei grilli; gli occhi seguivano il volo dorato delle api; la mano era pronta ad afferrare al balzo le cavallette.  Quei sei anni furono la base di una carriera eccezionale che doveva durare per altri 82 e dare a Henri tutti gli onori che la scienza, la letteratura, i re e i governi possono offrire.

 

A scuola i compagni di classe di Henri gli fecero scontare con le botte e gli scherni il fatto di essere diverso da loro. Il padre, costretto dalla cattiva sorte ad abbandonare la terra, si trascinò per i quartieri poveri di molte città, dove gestiva miseri caffeucci. La vita divenne un inferno per Henri, per lo squallore e i litigi. A 17 anni, privato della possibilità di continuare gli studi, percorse le grandi strade bianche della Francia meridionale come bracciante girovago, felice, anche se affamato e senza quattrini, di essere almeno libero.

 

Ad Avignone prese parte a un concorso per una borsa di studio in una scuola normale, e ottenne il primo posto. Mentre frequentava quella scuola, imparò da solo il latino, e poi il greco, con un libro che aveva soltanto la traduzione latina a fronte. E infine ebbe un posto a 1600 franchi l’anno (franchi di allora) nella scuola media maschile.  Quando, 20 anni dopo, lo perse, lo stipendio era sempre lo stesso.

 

Frattanto capitò nelle mani di Fabre il libro che, egli dice, cambiò la sua vita: un volume di entomologia. Ciò che rese questo libro tanto fecondo di conseguenze non fu una verità bensì un errore. L’autore dichiarava che la vespa uccide gli scarafaggi per cibarne le proprie larve. Osservando da vicino questa splendida, irrequieta cacciatrice dal pungiglione gladioforme, Fabre scoprì che, ben lungi dall’uccidere la preda, essa la trafigge nei centri nervosi con una precisione da chirurgo e la trasporta; paralizzata ma sempre viva, al suo nido, dove costituisce una fresca provvista per la prole che cresce.

 

Modesta in se stessa, questa scoperta mostrò a Fabre che nel campo della scienza qualsiasi autorità può essere discussa e che, nonostante le penose limitazioni della sua vita, il suo campo di ricerca era sconfinato.

 

Così Fabre cominciò a dedicare le sue giornate, ovvero il tempo che gli restava dopo le monotone ore di scuola, a svelare i misteri di strane piccole vite nei letti di torrenti resi asciutti dall’estate, nei lecceti, che doveva rendere famosi. Rivelò la storia della meloe, le cui larve, in attesa nei fiori, rubano un passaggio alle api osmie e sono così trasportate dalle stesse vittime proprio nei nidi che saccheggeranno. Cominciò le sue osservazioni sullo scarabeo, sacro agli Egizi, ma non prima di 40 anni considerò i suoi studi abbastanza completi per pubblicarne i risultati.

 

Quando apparvero le prime relazioni scientifiche di Fabre, gli entomologi di Parigi si stropicciarono gli occhi. Fin qui avevano considerato un insetto come noto quando gli si poteva dare un nome scientifico. Fabre fu colui che scopri gli straordinari drammi di queste vite d’insetti; invece che una collezione di bestioline infilate con gli spilli, teneva in gabbia creature vive per studiarle e trascorreva le giornate nei campi con i soggetti della sua indagine. In Inghilterra, Charles Darwin lesse le sue pubblicazioni con piacevole sorpresa, e gli scrisse chiedendo la sua cooperazione per degli esperimenti sull’istinto domestico delle api. Chiamò più tardi Fabre «l’impareggiabile osservatore».

 

Un giorno il maestro di scuola ricevette la visita del ministro dell’istruzione Victor Duruy, che stava rivoluzionando il sistema delle scuole pubbliche di Francia: aveva introdotto le lingue e la storia moderne; aveva ammesso le donne alle scuole secondarie con insegnanti laici invece che religiosi; in Fabre trovò il maestro che faceva per lui. Chiamato subito a Parigi da Duruy, Fabre fu insignito della Legion d’Onore e presentato all’imperatore Napoleone III.

 

Ma presto il clero costrinse Duruy a dimettersi. Poi, insinuando che Fabre, per aver ammesso le ragazze ai suoi corsi di biologia, corrompeva la loro innocenza, da buoni fanatici lo fecero licenziare su due piedi. Quando arrivò a casa, la proprietaria della pensione, una vecchia devota, lo accolse con un’intimazione di sfratto.

 

Alcuni mesi prima Fabre aveva conosciuto durante le sue escursioni il famoso filosofo inglese John Stuart Mill, il quale condivideva l’amore di Fabre per la botanica. Fu a lui che Fabre si rivolse, e Mill rispose subito offrendogli un prestito di 1000 franchi. Con questo denaro Fabre traslocò la sua famiglia, la moglie, i cinque bambini e il padre anziano, in una casetta nei dintorni di Orange. Aveva 47 anni, era escluso dalla carriera dell’insegnamento, non possedeva nulla tranne una strana raccolta di cognizioni sulla vita delle processionarie del pino, dei piccoli pavoni di notte, dei necrofori, degli scorpioni, delle mantidi religiose.

 

Ebbene, le avrebbe rese note. Avrebbe raccontato come la femmina del piccolo pavone di notte segnala misteriosamente la propria presenza ai suoi amanti notturni, attraverso chilometri di campi addormentati. E come la lampiride nottiluca può uccidere un grosso serpente iniettandogli furtivamente un anestetico. Avrebbe descritto le danze nuziali degli scorpioni neri e le scorrerie delle formiche schiaviste.

 

Le pagine in cui rivelò i fatti complessi di queste vite animali non hanno uguali negli scritti scientifici; brillano di un nascosto umorismo, conducono il lettore ad ammirare e poi ad amare i piccoli lucenti insetti; sono ravvivate dalle descrizioni della foresta, dei campi e dei fiori della Provenza. Ma i libri, stampati su brutta carta, a piccoli caratteri e con misere illustrazioni si vendettero poco per molti anni. I critici letterari quasi li ignoravano; molti scienziati ne disapprovavano la vivacità e la grazia dell’esposizione. «Temono che una pagina letta senza sforzo non dica la verità» notava Fabre con una risatina.

 

Negli scritti di Fabre c’è un profondo rispetto religioso, non mai espresso direttamente né mai assente per molto tempo: una fede nell’ordine della Natura. Questo senso del divino in tutto ciò che Fabre osservava era il suo strumento principale; per il resto si serviva di ciò che gli capitava sotto mano. Si fece prestare i cannoni dal municipio e fece fuoco per accertarsi se le cicale avrebbero cessato di frinire; poiché il loro clamore non cessò neppure un istante Fabre ne dedusse che queste suonatrici assordanti sono sorde. Mise della naftalina nella gabbia della femmina di un piccolo pavone di notte per coprire ogni odore che questa potesse emanare; ma sebbene l’odore di naftalina fosse tale da soffocare, quasi, un essere umano, i piccoli pavoni di notte accorsero ugualmente alla gabbia, tanto potente arrivava a loro l’odore della femmina. Pose le processionarie del pino a marciare intorno all’orlo di una ciotola, costrette a girare e girare senza scampo, e cosìscoprì che queste processioni sono rese possibili dalla secrezione di un sottile filo di seta che ogni insetto tiene e segue unendo al cavo il suo stesso filo.

 

Fabre seguì centinaia di piccole vite, ora per ora, giorno per giorno, anno per anno, raccogliendo il tutto in un trattato di scoperte entomologiche che non aveva eguali per precisione scientifica e per piacevolezza di esposizione. Eppure seguitava a vivere con la massima semplicità, appena in grado di nutrire lo stuolo dei figli magrolini e l’amata consorte.

 

Nell’ultimo periodo della sua vita divenne proprietario di un piccolo pezzo di terra a Sérignan, un villaggio vicino a Orange. Era una terra ricoperta di erbacce invadenti e spinose, ma era piena dei suoi lucenti amici, le vespe e le api selvatiche, gli scarabei e i necrofori. Fabre arrivò in questo eden d’insetti, così duramente guadagnato, come un uomo deluso dall’apparente insuccesso, affranto per la morte recente della moglie e di un figlio, «senza rimpianger nulla del passato e senza nulla sperare».

 

Ma a poco a poco le sue opere, di cui tutti parlavano, avevano acquisito grande popolarità. La fama giungeva al mite vecchio, che ora il mondo delle lettere acclamava, finalmente, come «l’Omero degli insetti». I grandi scienziati andavano a trovarlo.

 

Il giorno del suo novantesimo compleanno, nel 1913, l’affetto e l’ammirazione del mondo, cresciuti lentamente con gli anni, si manifestarono in un giubileo per Henri Fabre. Il piccolo villaggio di Sérignan fu sbalordito alla vista di una sfilza di uomini famosi: scrittori, scienziati, membri dell’Accademia Francese, alti funzionari della Repubblica, rappresentanti di governi stranieri. Al dotto di Sérignan giunsero a profusione medaglie e decorazioni, titoli e onori, doni ed elargizioni. E per la prima volta al mondo i grandi della Terra videro l’autore dei Souvenirs Entomologiques, i dieci volumi che sono diventati un’opera classica della letteratura e della scienza insieme. Trovarono un vecchio dal volto asciutto e rugoso in cui spiccavano due occhi neri, ancora limpidi, vivacissimi, scaltri, penetranti. Gli onori mondani lo lusingarono, ma lo commossero ben poco, ormai. Qualcuno, ansioso di servirsi della sua grande fama di dotto a favore della religione, gli chiese se credeva in Dio. «No» rispose, con un lampo del suo vecchio spirito malizioso. «Non credo in Dio, lo vedo dovunque.»

 

Amiamo gli animali – è l’invito di Paolo Battaglia La Terra Borgese.

No al circo con animali.

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